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 2013  dicembre 06 Venerdì calendario

MI FACCIO IL NUCLEARE PER ECCESSO DI PETROLIO


La prospettiva di un accordo sul nucleare tra Stati Uniti e Iran lascia aperta una domanda nell’opinione pubblica: perché un Paese ricco di petrolio e gas come l’Iran ha bisogno di energia nucleare?
Per quanto possa sembrare contro-intuitiva, la necessità è reale, anche se frutto di scelte sbagliate, e investe altri giganti del petrolio e del gas - come l’Arabia Saudita - prospettando una proliferazione nucleare in buona parte del Medio Oriente. Vediamo perché.
Nonostante l’indiscussa ricchezza delle sue fonti di petrolio e di gas naturale l’Iran si trova sull’orlo di un precipizio energetico ed economico.
Alle prese con un rapido declino della produzione nei giacimenti petroliferi più vecchi, sfruttati con tecnologie desuete, e incapace di sviluppare quelli nuovi per mancanza di risorse finanziarie, Teheran è costretta a reiniettare quasi 40 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno nel sottosuolo per estrarre una maggior quantità di greggio - circa la metà di quanto consuma ogni anno l’Italia. Si noti: l’Iran è il secondo paese al mondo per riserve di gas e il quarto per la produzione (con 159 miliardi di metri cubi l’anno), ma non riesce a ricavare profitti da questa abbondanza.
SEBBENE LA REINIEZIONE di gas possa sembrare assurda ai non esperti, in realtà è una tecnica necessaria, da sempre utilizzata dall’industria petrolifera e può presentare grandi vantaggi economici. L’Iran eccede nel farlo, ma non ha alternative: non ha altre tecnologie, né può esportare grandi volumi di gas. A peggiorare le cose, il governo vende sul mercato interno quasi i due terzi del gas che produce (circa 100 miliardi di metri cubi) a un prezzo di gran lunga inferiore al costo di produzione, pur di non far esplodere il già forte malessere sociale del Paese. D’altra parte, bruciare petrolio per ovviare ai bisogni elettrici interni avrebbe un impatto economico ancora più devastante.
IL PROBLEMA è che i consumi di elettricità, calore, condizionamento crescono a ritmi troppo marcati, rendendo urgente da anni una soluzione. Da qui la fuga verso il nucleare per "liberare" gas da destinare in futuro all’esportazione - ferma restando la quantità necessaria al recupero di greggio.
Pur con alcune differenze, la situazione è simile in Arabia Saudita. Con una domanda elettrica esplosiva e progetti petrolchimici faraonici interamente basati sul gas, la monarchia saudita impone un prezzo di vendita interno del gas così basso (meno di un quarto del costo di estrazione) da vanificare lo sviluppo di nuovi giacimenti. Così già oggi il gas scarseggia, costringendo l’Arabia Saudita a un assurdo economico: bruciare petrolio per produrre elettricità - uno degli usi peggiori che si possano fare dell’oro nero - e garantire alla petrolchimica un prezzo risibile del gas.
Anche nel Regno dei Saud la situazione non è più sostenibile. Ma invece di aumentare i prezzi interni di petrolio e gas o imporre standard di maggiore efficienza energetica, i sauditi hanno varato uno dei più grandi piani nucleari al mondo (almeno sulla carta), dandosi l’obiettivo di realizzare 16 grandi centrali nucleari entro il 2030.
Oltre a Iran e Arabia Saudita, ci sono almeno altri dieci paesi del Medio Oriente che hanno annunciato programmi nucleari a scopo civile. Molti di essi rimarranno esercizi velleitari, anche perché il costo di investimento del nucleare continua a essere di gran lunga troppo alto per paesi indebitati e alle prese con molti altri problemi economici. Ma il rischio di una proliferazione imitativa rimane.
LA MORALE di questa storia è semplice. Disporre di grandi quantità di petrolio e di gas non basta a soddisfare i bisogni energetici di un paese quando petrolio e gas vengono sprecati sull’altare di involute e perniciose considerazioni politiche. Basterebbe più efficienza energetica, prezzi interni un po’ più alti e maggiore apertura ai capitali stranieri perché questi problemi fossero risolti. Ma per molte autocrazie di grandi paesi petroliferi e del gas queste opzioni sono chimere, dato l’obolo da pagare alle popolazioni per mantenere una parvenza di consenso sociale.