Gary Inman, Rolling Stone 12/2013, 6 dicembre 2013
46 IL FUTURO
ASPETTIAMO Il caldo di fine estate è soffocante. Quattro ragazzi stanno seduti all’ombra sotto agli alberi insieme ai loro padri. Alcuni adulti camminano in mezzo a una fila di motociclette e a una schiera di furgoncini bianchi. Ci saranno una trentina di persone che girano qua e là, 10 di loro sono qui per fare un giro in moto, il momento fissato per la partenza è già passato, ma nessuno si muove.
Nessuno si lamenta. Nessuno controlla l’ora sul telefonino. Un’Ape Piaggio gira lentamente su un circuito che ha lo stesso colore del gelato alla vaniglia, scavato tra le colline della campagna marchigiana. Trascina dietro di sé quello che sembra un vecchio cancello di metallo da stalla.
Questo è il Motor Ranch di Valentino Rossi, la sua pista di allenamento, costruita nei dintorni di Tavullia, la città in cui il suo numero 46 campeggia su tutti i lampioni. Un posto che sembra il regno magico delle fiabe.
Il signor Graziano Rossi, il papà di Valentino, arriva vestito come un tappezziere post-apocalittico; indossa grosse ginocchiere su pantaloni spessi da lavoro, un’armatura Dainese, un casco da motocross senza visiera e dei pesantissimi stivali da moto con delle placche di metallo attaccate sotto. Sembrano le scarpe che Frankestein sceglierebbe se avesse deciso di prendere a calci qualcuno. Si avvicina alla sua Zaeta, una moto di fabbricazione italiana fatta apposta per girare sui circuiti dirt-track, un mezzo talmente consumato da innumerevoli cadute che sembra una macchina sopravvissuta a World War Z. Graziano accende la moto ed entra in pista. Nessuno si muove. Forse qualche membro della famiglia potrebbe prendersi la libertà di andargli dietro, ma gli altri no, e sicuramente non gli ospiti.
E così, mentre tutti guardano dall’altra parte, come per magia, appare da dietro l’uomo che tutti stavano aspettando.
Valentino Rossi, il più grande pilota della sua generazione e forse di tutti i tempi, arriva portandosi dietro una nuvola che scarica buonumore, affetto e allegria su tutto quello che lo circonda. È vestito con short mimetici e una maglietta con il suo numero stampato, una di quelle della sua linea di merchandise ufficiale, in vendita nel negozio VR46 nel centro di Tavullia, di fianco al ristorante “Da Rossi”. Valentino chiacchiera con tutti, stringe mani e abbraccia quelli che non vede da un po’. È caloroso e pieno di energia come il cratere dell’Etna. L’ho intervistato un po’ di volte. Tra una mia intervista e l’altra, probabilmente lui ogni volta ne ha fatte qualche migliaia, ma si è sempre ricordato di me, o almeno ha fatto finta. Non si può essere più gentili di così, giusto? Rossi è sempre stato uno studente del suo sport, uno che non solo ha fatto la storia del motociclismo, ma l’ha anche letta e studiata. Il nome del suo circuito privato è ispirato a Kenny Roberts. Tutta l’idea del circuito, in realtà, è presa da lui: Roberts è stato il primo americano a vincere un campionato del mondo GP (è stato campione della 500cc dal 1978 al 1980) e ha imparato a correre su un circuito dirt-track. Quando si è ritirato dalle corse per diventare team manager, si è comprato una fattoria in Spagna, l’ha chiamata “The Roberts Ranch” e ci ha costruito dentro un circuito come questo. Tutti i più grandi piloti degli anni ’80 e ’90, gente che Valentino ha adorato, sono andati a trovarlo.
Il Motor Ranch di Valentino è stato appena rinnovato. I piloti arrivano vestiti in pelle, alcuni con tute da motocross. Valentino indossa attrezzatura in pelle, fatta apposta per girare nel Ranch. Sembra tutta roba nuova, mi piacerebbe sapere che detersivo usa. Le moto sulla griglia di partenza sono tutte munite di un transponder che prende i tempi. Girare nel Ranch è divertente, ma è pur sempre una gara. Le moto sono modelli da cross giapponesi da 450cc, ribassate e modificate con ruote e pneumatici adatti al dirt-track: tutte, tranne quella di papà Graziano.
Valentino entra lentamente in pista. Franco Morbidelli, giovane pilota della Supersport, lo segue. Quando mi ripassano davanti, sembrano due jet da guerra in formazione d’attacco, così incollati l’uno all’altro da far venire i brividi.
Tra una settimana Valentino deve correre il Gran Premio di San Marino. Il suo circuito è lungo 2,4 km, i due piloti fanno un giro dopo l’altro, e Morbidelli non è mai più staccato di 50 cm da Rossi. È qui con altri tre piloti di Moto 3 – Romano Fenati, Niccolò Antonelli e Lorenzo Baldassarri – tutti studenti della Scuola Rossi, l’accademia per i giovani talenti del motociclismo fondata da Valentino. C’è anche un pilota più grande, Marco Belli, esperto di dirt-track. Girano in continuazione, senza fermarsi. Non stanno gareggiando, ma appena rientrano nella piccola zona pit-lane, tutti e cinque buttano subito l’occhio al cronometro appeso al soffitto del vecchio granaio. Sono tutti ricoperti di polvere tranne Valentino. La sua aria di munificenza, a quanto pare, respinge lo sporco.
Beve da una bottiglia piena di acqua ed energy powder, si apre la giacca di pelle e si asciuga il sudore. Il tempo per lui non sembra passare mai.
I suoi collaboratori dell’Impero numero 46 scattano foto da far girare sui social media e riprendono la gara in modo che lui possa riguardarsela più tardi. Arriva la sua fidanzata, Linda Morselli. Ha la pelle color cioccolato, gli occhi grandi come i fari di una Mini, un paio di orecchini larghi come un canestro da basket. Ha i pantaloni impolverati, si è abbassata per abbracciare e coccolare la figlia del miglior amico di Valentino, Uccio. Valentino si avvicina per salutarla con la sua camminata a papera un po’ alla Charlie Chaplin. Sul muro, di fianco ai monitor del circuito, c’è un cartello che dice: “Le macchine fotografiche e le telecamere non sono ammesse, il sesso sì”.
Oggi, in realtà, ce ne sono parecchie di macchine fotografiche, quelle di Rolling Stone e quelle dei ragazzi del marchio 46, ma questo posto è stato costruito apposta per stare tranquilli. Se Valentino vuole abbracciare la sua ragazza sa che può farlo senza problemi. Tutti quelli che sono entrati qui sono amici, e sanno come funzionano le cose. Gli hanno dato in mano la chiave magica, e poi gli hanno detto: non fate cazzate. Un giorno, Nicky Hayden è passato da qui mentre si allenava in bicicletta. Il tipo al cancello di ingresso non gli ha creduto quando Nicky gli ha detto chi era e non l’ha fatto entrare. Quando il sole inizia a tramontare. Rossi grida: «Ragazzi», e con la testa fa cenno di muoversi. Non è mai stato così insistente in tutta la giornata. Vuole fare la gara prima che faccia buio. Il circuito ha curve a destra e sinistra di tutti i tipi, salite e discese, ma non è un circuito da motocross. Non ci sono salti. Ci spostiamo tutti verso la parte del tracciato dove si trova un ovale con due crinali che portano a un altro loop, un ovale interno più piccolo. C’è un angolo che si chiama “La Berta”, dal nome della signora che gestisce l’edicola giù in paese. I piloti entrano nel circuito uno a uno. La gara, detta “L’americana”, è un giro del doppio loop, dove a ogni manche gli ultimi due arrivati vengono eliminati.
Escono a due a due come se fossero i rifugiati dell’arca di Noè, finché non rimangono solo Valentino e la sua giovane ombra Morbidelli. Per un attimo sembra che il pluricampione del mondo possa venire battuto a casa sua da un bambino, ma proprio all’ultimo Rossi fa una mossa delle sue, vince proprio mentre scende il tramonto e festeggia con un’impennata su un piede solo.
Ci sediamo a tavola. La fattoria che serve da quartier generale del Ranch è molto rustica. I mobili sono vecchi, niente di speciale. Si vede che hanno voluto spendere tutto solo nel circuito. Graziano mi spiega che hanno provato sei diversi tipi di superficie prima di trovarne una che potesse essere usata con tutte le condizioni, pioggia o sole, senza rovinarsi ne riempirsi di buche.
Ci sediamo tutti insieme intorno a un grosso tavolo, i piloti, gli amici e la crew di Rolling Stone, mangiamo salsicce e beviamo birra. Una scena quasi medievale. Valentino mi indica un angolo tranquillo dove possiamo fare due chiacchiere, e lascia un posto accanto a lui per Linda. Poi comincia...
IL RANCH
«Qualche volta perdo. Oggi non c’è, ma Mattia Pasini (pilota di Moto 2, ndr) è uno veloce e ogni tanto mi batte. Altre volte invece vinco io. Lui ha fatto il record della pista per pochi decimi. Il mio è 2:10.3, il suo 2:09.9. È una bella lotta, lui è uno forte».
SCUOLA ROSSI
«L’abbiamo aperta quest’anno e abbiamo già sette piloti, vogliamo lavorare solo con gli italiani. Molti ragazzi vorrebbero partecipare all’Accademia di motociclismo, sono tutti amici, ragazzi di Tavullia che vivono a 15-20 km da qui. Tranne Fenati, che sta a 200 km. Li aiutiamo a diventare piloti: lavorano in palestra con un preparatore atletico, Carlo, e si allenano sul circuito del Ranch. Li assistiamo anche con i contratti e con il management, per cercare di fargli avere la moto migliore. Ma non andiamo a proporli direttamente, non diciamo ai team: “Questo è un buon pilota, prendetelo”. Non sappiamo quale sia il loro potenziale, finché non iniziano a lavorare con noi, ma finora ci siamo divertiti molto e i ragazzi sono migliorati tantissimo. Sono più forti e più veloci».
LA VITTORIA AD ASSEN
«E stata una delle vittorie più importanti della mia carriera, ma non la più importante. Quelle che contano davvero sono quelle che ti fanno vincere il titolo. Però posso dire che è una di quelle che ho desiderato più a lungo. Quanto è passato dall’ultima, due anni e mezzo? Cazzo, è troppo tempo. Sono state delle domeniche molto brutte. Frustranti. Specialmente quando ero in Ducati».
LA DUCATI
«La prima volta che l’ho guidata è stato uno shock. Dopo tre giri ho pensato: “Siamo nella merda”. Mi sono bastati per capire che avevo fatto un errore. Il team ha visto il mio sguardo e ha capito che sarebbe stato un incubo. Non avevo potuto mai provare la moto prima di firmare, ma ho firmato lo stesso. Avevo anche fatto l’operazione alla spalla, ero in convalescenza, io e i miei meccanici sapevamo che sarebbe stata dura, ma ero convinto di avere l’esperienza sufficiente per migliorare la moto. I problemi erano chiarissimi fin dall’inizio: non c’era peso davanti, quindi niente aderenza». Il motore era potentissimo, ma impossibile da gestire. Un sacco di potenza e un sacco di elettronica per controllare la potenza. Non è una soluzione, l’elettronica può aiutare, ma il motore deve essere facile dal punto di vista meccanico. Ho detto: “Ok, proviamo a migliorare questa moto”. Abbiamo lavorato per tutta la prima parte della stagione, ma dopo io gare ho cominciato a capire che non avrei mai vinto con quella moto. La seconda parte della stagione, sapendo che avrei avuto la stessa moto anche nel 2012, è stata molto difficile. Le voci secondo cui volevo rescindere il contratto erano vere, ma non potevo farlo, non c’era modo. Ed è stato un bene. Ho avuto fortuna a non poter scappare quando volevo. Sarebbe stata una scelta sbagliata, troppo facile dire: “Me ne sto a casa” quando le cose vanno male. Non bisogna arrendersi».
QUELLO CHE NON TI UCCIDE...
«Ero felice di provare in Ducati, era una cosa importante e giusta da fare. È stata un’avventura affascinante, ma il problema per me sono stati quei due anni pesanti. Si dice che quando attraversi un periodo difficile diventi più forte, secondo me non è vero. Sicuramente diventi più vecchio».
IL DOLORE E IL PIACERE
«Il dolore per la sconfitta è molto più grande del piacere della vittoria. Penso: “Vinci e sei felice per tre ore, perdi e sei disperato per una settimana”».
LE MOTIVAZIONI
«Io sono uno che cerca sempre di dare il massimo, ma è difficile rimanere motivati quando sai che, anche se la moto è a posto e tutto va bene e tu guidi forte, al massimo puoi sperare di arrivare settimo. In Ducati era così. A volte ero persino felice di arrivare settimo. A quel punto ho cominciato ad aspettare la pioggia e le condizioni più strane. In generale, quello che mi spinge è la sensazione della gara, lavorare con i meccanici, guidare una moto da MotoGP. E la stessa emozione di 15 anni fa, sono felice quando sono in pista. Mi piace questa vita, quando so che si sta avvicinando una gara non sto nella pelle».
L’INFORTUNIO
«Non penso mai alla gamba mentre guido. E stato un errore che mi ha fatto capire delle cose. Ora cerco di stare più attento. Lo sbaglio è stato mio, avevo il fottuto Barbera dietro (durante le qualificazioni al Gran Premio del Mugello nel 2010, ndr). Ho spinto all’inizio del giro e lui era dietro, allora ho rallentato e lui ha rallentato. Ho rallentato ancora e lui ha rallentato. Ho rallentato troppo e mi ha passato, io ho aperto nell’entrata di una lunga curva a destra e... Quell’anno usavamo pneumatici Bridgestone con un case (la struttura centrale del pneumatico a cui è attaccata la gomma, ndr) molto rigido, e molto pericoloso. Perdevi aderenza sul posteriore all’entrata delle curve e finivi disarcionato. Proprio lì, all’ingresso. Sono cadute impossibili da controllare, un disarcionamento prima dell’ingresso di una curva non si era mai visto. Ora i pneumatici sono più sicuri, sono più morbidi, si muovono di più, ma almeno sono più prevedibili.
Adesso ho problemi con la ruota anteriore, perché ho sempre usato quelle con la struttura interna rigida. Nel 2008 e nel 2009 le usavamo solo io e Stoner, gli altri sceglievano quelle morbide. Poi Bridgestone ha smesso di produrle, perché dicevano che erano pericolose. Prima, quando si poteva scegliere tra Bridgestone e Michelin, io usavo il pneumatico davanti con il case rigido, perché la gomma era oro. Era fatta di un materiale molto caro e molto particolare, diventava molto calda e aveva un buon grip, ma allo stesso tempo durava per una gara intera. Quando la MotoGP ha introdotto la regola del pneumatico monogamma, la gomma d’oro si è trasformata in acciaio. E una merda, ma costa io volte meno. Non voglio dire che se avessi ancora il mio pneumatico avrei vinto io gare, però...».
STONER
«Casey ha fatto un lavoro incredibile con la Ducati e se riguardo la sua telemetria non capisco come abbia fatto. La gente pensa che Stoner fosse molto veloce, ma non molto intelligente, e per questo alla fine ha fatto il botto. Ma la realtà è che con la Ducati ha dovuto guidare sempre oltre il limite, andare più forte possibile. E se guidi così, alla fine ti schianti. Abbiamo due storie diverse. Lui aveva guidato una sola moto, la Honda di Luca Cecchinello e per un solo anno, quando è passato in Ducati. Credo abbia pensato: “Fanculo, questa moto è buona, devo vincere”. Io invece venivo da anni con la Honda e la Yamaha e ho capito subito che la moto non era buona. E poi, il divario con le due giapponesi era cresciuto moltissimo quando l’ho presa io. Sono sicuro che se Stoner domani salisse sulla Ducati di Dovizioso arriverebbe sesto. Comunque guidava in un modo incredibile. E unico. Se mi manca? In pista sì. Era un grande talento, difficile da battere. Fuori dalla pista no. Senza di lui, tra noi piloti va molto meglio. Ci sono i rivali e i nemici, ma la situazione è normale: quando finisce la gara non siamo amici, ma l’atmosfera è ok».
RITIRO
«Ho un contratto fino al 2014, se sarò abbastanza forte, in grado di fare un passo avanti e stare al livello dei primi tre, allora voglio continuare per altre due stagioni con la Yamaha, nel 2015 e nel 2016. Non ho ancora deciso. Quello che mi interessa è essere competitivo».
SACRIFICI
«I sacrifici ci sono, ma è un prezzo che mi piace pagare. Faccio una vita normale, se voglio bere una birra me la bevo. L’ho fatto per tutta la mia carriera, non ho intenzione di cambiare adesso».
PEDROSA
«E un peccato che non sia mai stato campione del mondo. Se lo merita, mi piace molto. Adesso mi sembra che gli sia entrata un po’ di paura, ha il talento per vincere il titolo, ma si è rotto le ossa 18 volte. Sono tante. Forse potrei fare quattro chiacchiere con Lorenzo e Màrquez e dirgli: “Ragazzi per favore, lasciatene uno a Dani”».
ROCK&ROLL
«Mi sono letto in aeroplano il numero di agosto di Rolling Stone (il n. 118, ndr) con la lista delle 50 canzoni più importanti nella storia del rock, mentre volavo in America, e mi sono reso conto che sul mio iPod ne avevo ben 37. E mi sono comprato le altre 13. I miei preferiti? Vasco Rossi e Jovanotti. Ho passato un paio di giorni con Lorenzo (Jovanotti, ndr) durante i miei test ad Austin in Texas, siamo usciti insieme. Ho fatto un’intervista con una giornalista americana, mi ha chiesto quale gruppo nuovo mi piacesse e io con molto orgoglio le ho risposto: i Black Keys. E lei invece ha capito male e ha scritto: i Black Eyed Peas... Ma ti rendi conto?».
LA FINE
«Finisce così (muove la mano e simula una caduta dall’alto), non così (una lieve discesa). Arriverà un momento in cui dirò: ok, ne ho abbastanza. Ciao».
Quando Valentino ha finito di fare quest’intervista, di guardare le foto che abbiamo scattato per Rolling Stone e di rivedere le riprese delle gare di oggi, se ne sono già andati tutti.
E molto tranquillo, rilassato. Valentino Rossi è una delle poche vere leggende dello sport e non potrebbe essere più felice, qui nel suo ranch sulle colline, alla periferia del suo regno, con all’orizzonte un altro weekend di gare...