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 2013  dicembre 05 Giovedì calendario

LUCIANO LIGABUE – “CERCAVO QUALCOSA PER SCIOGLIERE QUESTO GRANDE GELO”


MILANO, uno studio di incisione poco sotto la Circonvallazione e il parco Ravizza. Ligabue è da qualche parte qui dentro. Terminate le registrazioni del nuovo album Mondovisione (il suo decimo, escludendo dal conto i live), fatti i missaggi e approntata la sequenza definitiva dei pezzi, è al momento impegnato in una fase misconosciuta ma decisiva della lavorazione: il dosaggio dei secondi (o nanosecondi) di silenzio tra una traccia e l’altra dell’album. È l’ultimo passaggio prima di andare in stampa. Mentre lui conta i secondi, io sto fuori in cortile con Claudio Maioli. Un uomo massiccio dalla voce tonante, il più storico tra i collaboratori storici di Ligabue: quello che – per capirci – alle origini dei tempi gli fece registrare un provino e poi si prese la briga di farlo ascoltare a chiunque capitasse a tiro, finché non successe qualcosa. Stiamo lì, sotto un cielo opportunamente autunnale, a parlare di vecchie band della new wave italiana (Maioli le conosce tutte, con molte ha lavorato come produttore o come manager). Quando il lavoro di editing è terminato, il produttore Luciano Luisi mi fa ascoltare interamente, da cima a fondo, il disco («Sei la prima persona che lo ascolta in versione definitiva, con gli spazi giusti di silenzio tra i brani!»). Dopodiché incontro lui, Ligabue. È la prima volta che lo vedo da vicino. È morbido nei movimenti e molto riflessivo nel rispondere, e al di là del legittimo allure alpha male da rocker (appena scalfito dal capitombolo avvenuto il mese prima sul palco dell’Arena di Verona), ha qualcosa che – raccontando dell’incontro nei giorni seguenti a parenti e amici – non riesco a descrivere se non come “uno sguardo buono”. Ci si chiacchiera volentieri, devo dire.

Sei contento del disco?
Penso proprio di sì... Sono molto contento.
Ti somiglia, per cosi dire?
Sì, sì. Direi che è in assoluto uno dei dischi che è riuscito ad assomigliarmi di più... Ogni disco rappresenta un te stesso di un determinato momento, ma questo è uno di quelli che è riuscito ad assomigliarmi con più precisione.
È stato faticoso arrivare a questo?
Faticoso no, però è stato lungo. E questo da un certo punto di vista è strano, perché – in realtà – una delle cose che più mi piace del disco è che suona vero.
Per “vero” intendi spontaneo, non troppo meditato?
Sì, il più possibile “così come viene”, resistendo ad esempio alla tentazione di giocare con tutti i plug-in di Pro Tools... Il team di persone con cui lavoro in studio è fantastico, molto affiatato, ed è pure lo stesso gruppo che mi accompagna anche dal vivo, per cui l’idea era di partire dal loro suono. Poi, certo, su disco devi inquadrare le cose in maniera un po’ più dettagliata.
Altrimenti rischi di ritrovarti con un lavoro troppo bidimensionale...
Hai bisogno di più sfumature, sì. Dunque siamo partiti dal suono della band “al naturale”, e su quello abbiamo iniziato a lavorare. A posteriori, sono molto contento di aver dato il timone in mano a Luciano Luisi, che fra l’altro la materia la conosceva bene, essendo non solo un componente della band, ma una specie di “capo orchestra”, cioè quello che dal vivo fa partire le sequenze.
Ti ha pesato fidarti di una persona esterna? Te lo chiedo perché la vox populi è che tu tenda a essere uno che vuole avere un controllo scrupoloso e diretto su tutto ciò che fa...
Beh, il produttore era lui, ma io sono sempre stato lì.
Ah, perché non ti fidavi!
Ma no! Mi fidavo totalmente, ma era importante che la direzione in cui stava andando l’album fosse una scelta condivisa. In questo senso c’è stato uno scambio costante tra noi. Luisi è stato molto bravo a tenere la strada. Poi c’è una cosa a cui spesso non si pensa: quando un cantante registra un disco, per tutti la sua voce equivale alla sua firma sul lavoro, ma “sotto” quella voce spesso c’è un processo spesso molto lungo di produzione, di scelte di suoni, di opzioni riguardo alla ripresa, di decisioni riguardo a quale misaggio finale di un pezzo sia quello che funziona meglio. Il suono non è mai un optional. È il suono a fare sì che poi la tua voce sia in grado di esprimersi totalmente, che non rimanga soffocata all’interno di un vestito inadeguato. Per questo stavolta il lavoro è durato tanto a lungo.
Quanto a lungo?
Poco più di un anno, anche se non continuativo. Credo sia il disco a cui ho lavorato più a lungo di tutti. Se penso che il primo l’ho fatto in 26 giorni...
Beh, altri tempi, e altre aspettative sul tuo conto...
Sì, certo. Però il desiderio era che fosse spontaneo come quel primo album, o almeno che non rischiasse di risultare appesantito dall’averci troppo ragionato sopra.
Una cosa che mi chiedevo proprio perché si sa che tu sei uno che ascolta molta musica, anche “nuova” è se è mal successo che tu sia arrivato in studio con un cd dicendo: “Oh, sentite questo! È così che voglio suoni il nuovo disco!”...
No, no. Così non è mai successo. Anche perché, secondo me, questo non è esattamente un bel momento per i dischi con le chitarre.
Dici? Veramente?
Prova ad accendere la radio... Non sentirai una chitarra neanche per sbaglio. No, il senso di questo disco l’ho capito da un’osservazione quasi casuale di Michael Urbano – il batterista – che dopo aver ascoltato uno dei primi provini ha detto: “Questo è rock classico, ma al tempo stesso è come se venisse dallo spazio profondo”. Magari non verrà da così lontano, ma mi piaceva l’idea che ciò che stavamo facendo fosse classico, ma al tempo stesso rispecchiasse delle anomalie proprie del 2013...
“Anomalie” nel senso di elementi alleni? Che si distaccano da un format codificato, prevedibile?
Anche, sì. Poi, certo, stiamo pur sempre parlando di un lavoro che appartiene al mondo del mainstream. Però, anche all’interno del mainstream sono le anomalie a dare la personalità. La mia stessa voce, per dire: secondo certi parametri di bellezza è anomala, però è anche per questo che mi si riconosce. Una piccola dose di anomalia nel suono va bene, quasi la cerco... Non so: forse è solo una mia sega mentale.
Beh, In Il volume delle tue bugie, ad esempio, c’è quel momento, verso la fine, dove a un certo punto entra un assolo che apparentemente non c’entra nulla col resto del pezzo e che di certo non è una mossa che vada in direzione del classico format mainstream però funziona, ci sta bene...
È una cosa che nell’album succede in almeno un paio di momenti. Nel progressive funzionava proprio così: a un certo punto uscivi nettamente dal brano come lo avevi strutturato fino a quel momento.
Qui però è tutto all’interno di un format canzone classico, di quattro minuti massimo.
Infatti più che una divagazione è un diversivo. O, se preferisci, una sorpresa.
Sempre però con quella specie di... non so se chiamarlo obbligo morale, senso del dovere… comunque la consapevolezza chiara di voler fare una musica che rientri nei parametri riconoscibili del pop...
Beh, aspetta. Non è che parto col freno a mano tirato, non è che mi dico: “Oddio, non voglio spaventare nessuno!”. È che per me l’idea stessa di canzone ha a che fare anche con il fatto che quella canzone deve pure funzionare. Deve riuscire a essere popolare, cioè. Io in questa cosa ci credo molto. Da sempre. Non mi interessa esplorare la nicchia, mi interessa esplorare il mainstream. Sono molto chiaro e onesto in questo.
Non prigioniero di un obbligo, quindi?
No, assolutamente. Ho sempre amato l’idea di una canzone che pur con tutte le mille differenze stilistiche si riallaccia alla tradizione del melodramma: musica che nasce per la gente, e che alla gente deve arrivare.
Devo dire che talvolta mi capita di chiedermi – non solo riguardo a te, ma in generale verso chi è in una posizione di artista mainstream – “chissà che farebbe tizio se fosse completamente libero di fare il disco che gli passa per la testa”... Beh, prima ho chiesto a Luisi che disco avresti fatto, fossi stato totalmente libero da obblighi, e lui ha detto che probabilmente avresti fatto esattamente Mondovisione...
Infatti è un disco che mi somiglia, torniamo a quello che dicevamo prima. Ma poi non ti credere: non è che ci siano tutte queste costrizioni, tutti questi limiti.
Beh...
No, no. E le costrizioni mi stanno bene. Mi piace essere costretto a fare i conti con una struttura rigida come strofa/ritornello/strofa; mi piace fare i conti con i milioni di canzoni scritte e riuscire, in qualche modo, ad averne ancora qualcuna da scrivere, che ti faccia stare bene e che speri faccia stare bene qualcun altro. Questa è la mia sfida, questo è ciò che mi motiva.
Sempre Luisi, prima, mi raccontava che ci sono circa una decina di canzoni che avevate praticamente completato, ma che sono rimaste fuori dalla versione finale dell’album.
Sì.
Che fine fanno, poi? E perché non entrano, soprattutto?
Rimangono lì... Fino a oggi poi non avevo neanche mai considerato la possibilità di riprendere in mano canzoni rimaste lì dal passato. Invece in Mondovisione c’è per esempio Ciò che rimane di noi, che risale all’epoca di Arrivederci, mostro!. A questo punto mi si è aperto un mondo... E non escludo che possa succedere di nuovo, in futuro, di ripescare una canzone precedentemente esclusa.
Ma l’esclusione come avviene, considerato che son tutte “figlie tue”? Il suono che non funziona? Che non è coerente con il resto dell’album?
Di certo c’è un’atmosfera, un mood che si crea tra le canzoni, al punto che ti sembra quasi che siano loro a scegliersi a vicenda, a dire: “Siamo noi, non vedi come stiamo bene insieme?”. Il perché... Il perché non te lo so spiegare: è una sensazione. Oggi pomeriggio, per dire, abbiamo fatto un’operazione molto semplice, ma molto significativa per chi ancora considera l’album come un’opera organica.
La sequenza del pezzi!
Non solo la sequenza, anche l’edit: vale a dire, l’esatta pausa di silenzio tra un pezzo e l’altro, che ovviamente può essere breve, lunga, media... Questo poi è un album in cui ci sono meno ballad rispetto agli ultimi: ci sono La terra trema, amore mio e La neve se ne frega, ma numericamente vincono i mid-tempo. È anche questo che porta le canzoni a star bene insieme.
Ti cito: “Ogni volta che faccio un album mi sembra il più personale che abbia mai fatto”... Ecco, non è ancora arrivato il momento in cui non hai più niente da esplorare dentro di te? Perché, a parte l’incredibile quantità di biografie con la tua attiva partecipazione uscite in libreria, pure i due film – e il romanzo, e i racconti, e la raccolta di poesie – sono state occasioni per guardarti dentro da angolazioni anche differenti, immagino, da quelle che ti portano a riversare qualcosa di te in una canzone...
Beh, a parte il fatto che comunque per fortuna si vive, e quindi qualcosa di nuovo su di sé uno rischia di impararlo sempre... Sì, a quella cosa che ho detto ci credo sempre di più, anche se penso sia una cosa che chiunque faccia arte ti dirà quasi doverosamente. Forse, rispetto al passato, in Mondovisione c’è un’indignazione meno trattenuta: anzi, in Il sale della terra e Il muro del suono è molto, molto urlata. Per contro, c’è anche un privato raccontato in maniera molto intima. In Per sempre ci sono delle fotografie che vogliono essere per l’appunto quello: fotografie, immagini che ti accompagneranno per tutta una vita anche quando quelli che sono raffigurati se ne saranno andati.
Mondovisione è un titolo curioso. Da un lato è desueto: un po’ piccolo mondo antico, la televisione quando era ancora un momento di collettività, di occhi sul mondo... Però ho letto una tua dichiarazione in cui lo spiegavi, in maniera molto didascalica, come la tua “visione del mondo”...
Sì, sì, sono vere entrambe le cose. In più, c’è la considerazione – banale, se vuoi, ma anche molto concreta – che nel 2013 con gli smartphone e YouTube siamo potenzialmente tutti immediatamente in mondovisione.
Aggiungo una quarta possibile interpretazione: torna in un titolo di album la parola “mondo”. Come in Miss mondo, che in qualche maniera è considerato l’album della tua “crisi interiore”...
Beh, “mondo” è una delle parole che credo di aver usato di più in assoluto nelle mie canzoni, a partire da Balliamo sul mondo...
Eh, certo!
Pure in questo album ritorna spesso: in Il mondo dei suono c’è il verso: “Sotto gli occhi comunque distratti del mondo”, poi c’è Sono sempre i sogni a dare forma al mondo... Sono affezionato a poche parole di uso assolutamente generico – “mondo”, ma anche “cielo” – e le ripeto tantissimo nelle mie canzoni, perché sono convinto abbiano la capacità di contemplare, in contesti diversi, moltissime possibilità interpretative. Continuo ad abusare di loro, e anche della pazienza di chi mi sente ripeterle!
A proposito di Sono sempre i sogni a dare forma al mondo: mi chiedevo se il “sempre” messo lì fosse un espediente di metrica – cioè che la frase suonasse meglio con piuttosto che senza – oppure se volessi proprio sottolineare il concetto.
Lì si parte da più lontano, da una considerazione sul fatto che il nostro senso della realtà – e quindi pure la nostra visione del mondo – sono influenzati dalla capacità di immaginare. Noi non sappiamo per certo che cosa succede nella casa qui di fianco, possiamo solo immaginarlo: in determinati casi, quindi, la nostra realtà è frutto di una nostra idea della realtà, e in qualche modo mi piaceva far rientrare anche i sogni in questo processo, in questa funzione.
Ah, più banalmente, pensavo ti riferissi a quei sogni, quelle intuizioni che fanno fare un salto in avanti al mondo tutto quanto...
Beh, ma c’è anche quello, ovvio. La forma che è stata data al mondo, grazie alle grandi invenzioni, alle grandi creazioni: la capacità di innovare parte sempre, comunque, dalla capacità di sognare.
Tu, questo ottimismo di fondo, alla fine ce l’hai sempre... Mi ero appuntato pure una possibile definizione che era... ecco: “Ottimismo geografico”, nel senso di un ottimismo della ragione che appartiene molto alla tua terra, anche in senso politico, se vuoi.
Ma guarda che io non credo affatto di essere ottimista. In realtà mi piacerebbe esserlo molto di più. Ho un mio lato “pratico” del carattere che mi salva, e che poi mi fa scrivere una canzone come Il meglio deve ancora venire, dove in realtà sono io che chiedo a una persona che lo dica a me: “Sei qui per dire /mi devi dire /che il meglio deve ancora venire”. Quei versi li ho scritti che avevo appena compiuto 50 anni, e avevo davvero bisogno di sentirmelo dire. Poi, sì, vedo l’effetto che questo slogan ha sul pubblico... E a quel punto mi dico: “Beh, la vedo anch’io la crisi, vedo anch’io come stiamo messi, ma non mi costa niente pensare che il futuro sia possibile, sia figo”. Pensare “...tanto andrà tutto in merda” non fa altro che farti stare in un angolo aspettando che tutto vada in merda per davvero, no? Per questo dicevo che il mio ottimismo in realtà è un lato “pratico” della mia personalità.
Il che ci porta a un altro del temi chiave del disco, quello che affronti in Nati per vivere (Adesso e qui), che parte appunto da quello che stavi dicendo, manifestando la tua antipatia per certe rockstar che invece...
Sì, mi da molto fastidio il fatto che sia cool dire, ad esempio: “Siamo nati per morire”...
Ma chi è che l’ha detto in maniera cosi didascalica? Manco i Cure dei tempi d’oro, alla fine. Oddio, l’unica che mi viene in mente adesso è Lana Del Rey, che non è esattamente un modello di rock...
È un pensare diffuso, come chi ti dice: “Solo io che sono arrivato al limite dell’autodistruzione posso raccontarti il senso della vita”. Finché sei adolescente puoi ancora trovarlo un punto di vista affascinante, dopo però...
Però è un po’ un cliché ingiusto... Ok, Kurt Cobain si è ammazzato, Ian Curtis si è ammazzato, Hendrix si è fatto ogni droga possibile, però non è quella la ragione per cui li amiamo.
Infatti, è un problema di rappresentazione più che di cosa loro abbiano dichiarato o fatto. C’è sempre qualcuno che ti dice: “Cazzo però, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Jeff Buckley... quelli sono morti a 27 anni, giovani e belli, come fai a batterli?”. Figurati come posso sentirmi io, che anagraficamente ormai li sto per doppiare!
A me poi sembra che, anche nelle manifestazioni più depressive e autocompiaciute del pop, dietro si possa sempre intravedere un sincero e molto umano tentativo di sconfiggere lo spettro della morte, che è l’unica certezza con cui tutti hanno a che fare quotidianamente...
E c’è anche un altro aspetto, poi, verso il quale non si può che provare del rispetto umano: l’artista che – dopo un’intera esistenza all’insegna del vivere sopra le righe, del sconfiggere la morte – arriva al punto in cui realizza che non è così. E quindi...
...la depressione.
Certo, a quel punto la crisi è inevitabile.
Per contro – e di questo dobbiamo ringraziare forse quell’ottimismo della praticità di cui parlavi prima – nel tuo nuovo disco c’è una piccola immagine che evoca speranza: il cerino “sfregato nel buio” in Il muro del suono...
“Il cerino sfregato nel buio / fa più luce di quanto vediamo”. È quello che ti dicevo prima: c’è un atteggiamento che è quello di mettersi là e aspettare il disfacimento nella convinzione che non cambierà mai nulla... E vedendo quello che succede sarebbe pure comprensibile, no? Oppure uno può prendersi la libertà di non rinunciare a guardare avanti, e scoprire che, nel buio pesto, anche un cerino fa una luce incredibile. Dura poco, è vero, ma fa molta luce. Il problema, casomai, è che tra un po’ i cerini non li faranno neanche più: forse avrei dovuto dire “l’accendino”, ma non era bello uguale.
Per avere la nomea di uno riservato tu ti sei concesso molto: penso alla quantità di libri sul tuo conto cui accennavo prima, realizzati con un tuo diretto coinvolgimento. Mi chiedevo se dietro non ci sia una sorta di desiderio, conscio o inconscio, che venga accreditata una sorta di “versione ufficiale” dei fatti, quindi un desiderio di controllo sui discorsi che ti riguardano...
No, molto più banalmente è successo che me l’hanno chiesto in molti – la ragione non te la so spiegare – e poi mi sono accorto che essere intervistato in profondità era un esercizio utile anche per me, che mi costringeva ad analizzare ad esempio la mia scrittura.
Al di là delle chiavi di lettura che già erano emerse – ad esempio il mondo delle radio libere in Radiofreccia – della tua biografia mi ha colpito l’amore per Pier Vittorio Tondelli. Un amore nato prima dal sentirlo vicino a te geograficamente, visto che venite entrambi da Correggio, ma poi...
Proprio il fatto che venissimo dallo stesso luogo è stato importante, non tanto per una questione di campanilismo, quanto perché mi ha fatto pensare al fatto che il mondo che avevamo davanti agli occhi ogni giorno era lo stesso. Io ero un ragazzo che scriveva canzoni presuntuose, o forse la parola giusta è pretenziose: i modelli cui mi ispiravo erano De Gregori, Guccini... Per fortuna avevo il pudore di non farle sentire. Però, detto col senno di poi, erano veramente cose che puzzavano di vezzo, di maniera. Poi un giorno ho letto Altri libertini, e lì mi sono trovato di fronte a uno che vedeva le stesse cose che vedevo io, e le rendeva epiche semplicemente raccontandole. Quindi mi sono detto: “Ma allora forse è così che si fa”, e da lì è nata Sogni di Rock’n’Roll, che è la prima canzone in cui ho lasciato perdere la maniera e ho cominciato a essere me stesso.
Hai trovato la tua voce.
L’ho trovata attraverso quel pretesto.
La creazione per te è un atto solitario. Immagino: tu con la chitarra e un taccuino dove appuntarti il testo. Poi, in studio, gli altri cominciano a ricamare insieme a te su quella prima versione...
In realtà, ho bisogno di essere io quello che mette il primo vestitino addosso a una canzone, per cui in genere arrivo dagli altri con una primo demo della canzone già elaborata da me, da solo, nel mio studio. Il brutto della tecnologia è che, oggi, potrei fare un disco anche da solo. Il bello è che – proprio qui su Mondovisione – Luisi ha tenuto alcune delle chitarre che avevo registrato per i provini: le ha proprio prese e messe dentro.
Che fa parte di quella “verità” di cui parlavi all’inizio...
E di quel desiderio di urgenza, pure.
Se non sbaglio Nome e cognome fu per te un momento di svolta proprio in termini di produzione in studio. Te lo chiedo perché, non so se a torto o a ragione, trovo una strana similitudine tra quel disco e Mondovisione.
Nome e cognome è l’album dalla produzione più tormentata della mia carriera... Soprattutto perché mi ero messo in testa di usare due produttori.
Uno era Luca Pernici, se non sbaglio...
E l’altro era Fabrizio Barbacci, con il quale avevo un rapporto di collaborazione pluriennale. Luca in questo schema doveva essere l’elemento nuovo, se vuoi anche disturbante, chiamato per creare un po’ di caos all’interno del nostro suono... In realtà le cose poi non andarono come sperato: la distanza tra i due mondi era ancora troppa, e quindi è finita che metà canzoni le fece uno, e metà canzoni l’altro...
Ricordo che, all’epoca, l’aspettativa era che Pernici potesse essere per te ciò che Howie B fu per gli U2: la finestra su un mondo differente...
Sì, mi piaceva pensare che nel mio suono potessero entrare anche elementi dance, perché no?
Che poi, bizzarramente – e ovviamente sono pronto a essere smentito – per certi versi Mondovisione è la versione “a fuoco” delle intuizioni sonore e dei desideri che erano rimasti ai margini di Nome e cognome...
No, questo forse no... Anche perché è stato un giro molto lungo per arrivare da lì a qui. L’album dopo Nome e cognome è stato Arrivederci, mostro!, dove ho praticamente dato le chiavi in mano a Corrado Rustici, e per una volta ho proprio deciso di non intervenire. Il suono che senti su quel disco è tutto frutto di scelte di Rustici: io mi limitavo a dirgli: “Ok, bene”; oppure: “No, guarda, questo proprio non mi piace”.
E stavolta, invece, hai trovato l’equilibrio perfetto. Del resto c’è un che di ripartenza in questo disco. Il pezzo dopo lo stacchetto western potrebbe tranquillamente essere la Balliamo sul mondo del 2014...
Con la scusa del Rock’n Roll è il pezzo con cui chiudo una ideale “triade del Rock’n Roll” iniziata con Sogni di Rock’n Roll e proseguita con In pieno Rock’n Roll.
Manco ci volesse una scusa, poi, per fare del rock&roll...
Beh, la scusa è che ne avevo voglia! Avevo voglia di un pezzo sfacciato, positivo, senza nessuna idea di decadenza dentro, come il rock&roll delle origini: celebrazione della vita e basta...
Ma invece la neve? È l’ultima domanda: mi incuriosiva come la neve ricorra più volte nella tua poetica, al punto che ci hai intitolato anche il romanzo del 2004, La neve se ne frega, titolo che ritorna pure qui su Mondovisione. Ma nevicava a Correggio, quando eri ragazzino?
Sì. Nevica ancora!
Quindi non è una neve vissuta come un miracolo: è parte dell’esperienza quotidiana.
A me la neve piace moltissimo. La neve del romanzo era la condizione atmosferica in cui – in quel futuro immaginario – la gente poteva finalmente essere se stessa; qui, invece, volevo scrivere una canzone sulla sensazione diffusa di grande freddo, di grande gelo, di grande paura. E sulla ricerca di calore di tutti noi, anche. Ritorniamo al cerino di cui parlavamo prima. Il cerino, oltre a fare luce, può anche sciogliere il gelo che ci imprigiona. Un po’ alla volta, lentamente. Ci prova.