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 2013  dicembre 05 Giovedì calendario

IL GOVERNO DEL CAOS


È sempre difficile parlare di legge finanziaria, o legge di stabilità come ora viene chiamata. Il suo iter parlamentare, infatti, è invariabilmente lungo, contorto, e ricco di imboscate. Per chi, come lo studioso o il giornalista, deve capire e commentare, è sempre in agguato il rischio che quel che è vero oggi non lo sia più domani.
Per capire quel che ci stanno imbandendo, quindi, è meglio tenersi lontani dai provvedimenti più specifici, come le molte «mance» previste da ogni legge finanziaria (al momento la più vecchio stile è il rifinanziamento dei lavori socialmente utili, vedere l’articolo a pag. 29) e cercare di vedere l’impianto generale.
La prima cosa da dire è che, sulle grandi cifre, come varierà il pil, come varierà il deficit, quante tasse pagheremo, quanto spenderà la pubblica amministrazione, quasi nulla cambia. Per quanto difensori e critici del governo si sforzino di dimostrarci il contrario, i cambiamenti che si intravedono sono così minuscoli, un +0,1 per cento qua, un -0,1 per cento là, da confinare con l’errore statistico. Nel 2014 il pil, dopo anni di diminuzioni, aumenterà di qualche decimale. Il deficit resterà vicino al 3 per cento. La pressione fiscale non diminuirà. La spesa nemmeno. Calma piatta, insomma. Nessuna inversione di tendenza, nessuna svolta. Sotto questa bonaccia perfetta, tuttavia, diverse cose si muoveranno. Non tanto, ma abbastanza da farci capire alcune tendenze e alcune scelte.

Prima scelta: prendere in giro i contribuenti. La promessa abolizione dell’Imu sulla prima casa non ci sarà. Difficile fare calcoli precisi, ma la maggior parte di coloro che i calcoli hanno provato a farli hanno concluso che, a regime (ossia dal 2014), le tasse che pagheremo sulla casa, comunque vengano chiamate, saranno almeno pari a quelle che abbiamo pagato nell’anno della stangata, quel terribile 2012 in cui il fisco ha raggiunto il massimo storico della sua esosità. E per il 2013? Non si sa ancora nulla di sicuro, ma le ultime notizie sono che il governo non manterrà la promessa di non far pagare l’Imu sulla prima casa. O meglio: la manterrà per quei cittadini che hanno la fortuna di vivere in comuni i cui sindaci nel 2013 non hanno aumentato l’aliquota, mentre non la manterrà per i cittadini dei comuni i cui sindaci, per necessità, per furbizia o per altri motivi, hanno aumentato l’aliquota. Sapremo presto quanti sono questi comuni (c’è tempo ancora qualche giorno per aumentare le aliquote), ma già ora sono circa 2.500, fra cui quelli di grandi città come Milano, Torino, Genova, Napoli, Palermo. I cittadini di questi comuni, governati da sindaci incapaci di far quadrare i conti senza aumentare l’aliquota Imu, saranno chiamati a pagare una frazione (il 40 per cento) dell’extragettito che i loro sindaci hanno stabilito per il 2013.
Fin qui, solo una promessa non mantenuta. Ma al danno ora pare aggiungersi la beffa. In questi giorni si è cominciato a parlare di «rimborso»: i cittadini, per intanto, comincino a pagare, poi, se si troveranno le risorse, il governo consentirà a chi ha già pagato di chiedere il rimborso. Ma ci rendiamo conto? In un Paese oppresso da centinaia di adempimenti fiscali, burocratici, amministrativi, si chiede ai cittadini di perdere tempo e soldi (l’assistenza fiscale costa) per poter pagare una tassa che di lì a qualche mese sarà loro restituita, facendo di nuovo perdere a tutti, contribuenti e uffici della pubblica amministrazione, altro tempo e altri soldi.
E veniamo alla seconda scelta: nessuna attenzione ai conti delle imprese. Nella legge di stabilità ci sono un po’ di soldi per i lavoratori dipendenti peggio retribuiti, cui andranno buona parte dei benefici della riduzione del cuneo fiscale, c’è un demagogico quanto politicamente corretto «prelievo di solidarietà» sulle pensioni più alte per dare una manciata di soldi ai poveri di alcune grandi città, ma non c’è quasi nulla per dare ossigeno alle imprese, cui anzi viene imposto un «acconto» mostruoso sulle tasse del 2013: 102,5 per cento di Ires e Irap, che salgono al 130 per i presunti cattivi, ossia banche e assicurazioni. Una scelta scellerata, come se la creazione di posti di lavoro non richiedesse, prima di qualsiasi altra condizione, di rimettere i produttori nelle condizioni di non operare in perdita.
Ma come si fa a chiedere un acconto maggiore del 100 per cento? Pensate se chiamaste a casa vostra un elettricista per mettere a norma il vostro impianto elettrico e lui, prima ancora di iniziare il lavoro, vi dicesse: fa 1.000 euro, ma cominciate a darmene 1.300, è solo un acconto. Voi non chiamereste i servizi psichiatrici?
Resterebbe da segnalare una terza scelta, più sottile, meno visibile, ma non meno importante delle prime due: alimentare l’incertezza.

Anche qui, c’è da non crederci. Un governo che, da quando esiste, ripete che gli investimenti richiedono un quadro di stabilità, scelte chiare, prevedibilità, passa mesi e mesi ad annunciare provvedimenti futuri, a negoziare e rinegoziare al proprio interno (e con le fazioni della sua maggioranza) i dettagli di ogni misura, per poi tuffarsi nel rito democratico finale: fingere che sia il Parlamento a decidere, salvo mettere il Parlamento stesso di fronte al solito ultimatum, al solito prendere o lasciare, del voto di fiducia sul maxiemendamento governativo.
Eppure, lo sanno e lo ripetono tutti: l’attività economica richiede non solo buone regole (che in Italia non ci sono) ma anche un quadro normativo stabile, che permetta di fare previsioni, formulare progetti, pianificare attività.
E invece che cosa ci troviamo di fronte? Una legge di stabilità in cui, dopo mesi di discussioni e litigi, nulla è ancora chiaro, nulla è definitivo, nulla è sicuro. Tranne una cosa: che almeno tre delle norme che, per ora, sono state imposte al Parlamento con il voto di fiducia hanno buone probabilità di risultare illegittime o contabilmente irricevibili. È il caso della norma che prevede (per le società finanziarie) un aumento retroattivo dell’aliquota Ires dal 27,5 al 36 per cento. È il caso del prelievo forzoso sui soli redditi dei pensionati, su cui la Corte costituzionale ha già eccepito in un analogo caso precedente. Ed è il caso, infine, del ricorso ad acconti fiscali maggiori del 100 per cento, che le autorità europee potrebbero vedere non come un’entrata ma come l’accensione di un debito verso i contribuenti.
Un vero capolavoro di cultura antiliberale, per adesso. Ma nessuna paura: può peggiorare ancora.