Roberto Rossi, l’Unità 5/12/2013, 5 dicembre 2013
ABORTO INDIETRO TUTTA
Racconta Andrea Cataldi: «Era martedì e io ero a letto con una tonsillite. In soggiorno mia moglie, alla diciottesima settimana di gravidanza cerca di tenere a bada il nostro primogenito Daniele non le concede tregua (...) Nella frenesia si fa largo il trillo di un telefono che non avremmo voluto sentire». Simona alza una cornetta «che non avrebbe dovuto alzare». Dall’altro capo l’ospedale di Ascoli Piceno, la città dove vivono, con i risultati dell’anmiocentesi: «Dovremmo parlare con voi». E arriva «il buio, all’improvviso». In pochi minuti raggiungono la struttura. La tonsillite di Andrea è una «questione già vecchia». «Trisomia 13, sindrome di Patau» c’è scritto nella cartella. Un caso rarissimo, uno su diecimila. Chi ne è affetto nasce deforme e non vive più di tre mesi. «Incompatibile con la vita» dicono all’ospedale, «incompatibile con la vita» pensano i genitori sconvolti. «Piano piano, quasi bisbigliando, ci viene illustrato l’unico scenario plausibile, proprio quello più impensato, proprio quello che mai avremmo preso in considerazione»: l’aborto.
«Quella parola si fa fatica a pronunciarla, persino il personale medico accenna, ammicca, ricorre agli acronimi: Ivg, Itg». Figurarsi poi quando devono «confessare che: "noi qui queste cose non le facciamo, siamo obiettori"». Se si vuole ci sono altre strutture. Ancona, San Severino Marche o Pesaro. «Ma ad Ancona la lista d’attesa è lunga» e più si aspetta più diventa complicato, pericoloso. La scelta cade su San Severino Marche, due ore di auto. Eppure la legge, la «194», ideata 35 anni fa per regolare la proceduta di aborto, dovrebbe obbligare gli ospedali dove esiste un reparto di ostetricia e ginecologia, come quello di Ascoli, a eseguire interruzioni di gravidanza dopo i primi novanta giorni. L’articolo 9, che regola il diritto all’obiezione di coscienza, lo dice chiaramente quando riporta che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’espletamento delle procedure previste...».
FOTOGRAFIA
Ma se la legge lo recita, in Italia in pochi la applicano. Per capire quanti, visto che il ministero della Salute non fornisce un elenco aggiornato degli ospedali nei quali siano operanti i reparti di ginecologia che garantiscano l’aborto terapeutico (dopo i primi 90 giorni), e dato che l’Istat non fornisce questo tipo di informazioni, trincerandosi dietro un illusorio «segreto statistico», la Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della 194) ha fatto una sua personale ricerca. «Ospedale per ospedale» ci dice la dottoressa Anna Pompili. Non tutti, naturalmente, ma una fetta talmente larga di strutture da rendere lo studio un prezioso documento. I risultati si fermano all’aprile di quest’anno, ma da allora si può immaginare che poco sia cambiato, in meglio.
La fotografia è riassunta nelle tabelle a fianco ma il responso è netto: nel nostro Paese la «194» è spesso carta straccia. Sommersa da una dilagante obiezione di coscienza, spesso piegata a logiche che nulla hanno a che fare con un reale convincimento interiore, e da una conseguente e ben più grave obiezione di struttura. Una realtà che il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, fa finta di non vedere fissando il numero di obiettori a una cifra che balla, per ogni regione, intorno al 70%. Ma si tratta di una media semplice, fuorviante. In certe realtà l’applicazione della 194 è complicata.
Nel Lazio, ad esempio, l’unica regione nella quale l’indagine è completa, su un numero totale di 391 ginecologi strutturati nei reparti solo 33 non obiettori eseguono l’interruzione di gravidanza volontaria. Neanche uno su dieci. Non che da altre parti vada meglio. In Sardegna negli ospedali Civili di Bosa e di Ozieri, sono quasi tutti obiettori. In Campania solo il 16% dei ginecologi è non obiettore, in Calabria la percentuale si abbassa anche di più (sfiorando appena il solo il 7%).
Ma anche al nord si trovano delle realtà piuttosto complesse. All’ospedale di Bergamo sono obiettori 20 ostetrici-ginecologi su 27,32 anestesisti su 100 e 52 membri del personale sanitario non medico su 125. A Seriate, sempre in Lombardia, su 33 ostetrici-ginecologi 21 sono obiettori. L’en plein lo fa il presidio di Treviglio: 14 ginecologi e 22 anestesisti. Tutti obiettori. Ma ci sono, come ha denunciato il Pd locale, anche i casi di Montichiari, in provincia di Brescia, di Cuggiono, presidio dell’ospedale di Legnano, di Iseo, che dipende dall’ospedale di Chiari, di Sondalo e di Chiavenna, distaccati dell’ospedale della Valtellina e Valchiavenna. Quante interruzioni si sono fatte? Zero.
In totale, ha calcolato la Laiga, su 441 strutture italiane sentite, solo poco più del 10% garantiscono l’aborto terapeutico. Molti pazienti sono così costretti a spostarsi in un altro ospedale. Come succedeva a Caserta, dove nella Clinica S. Anna, convenzionata con la Regione e autorizzata ad eseguire interruzioni di gravidanza, nel 2012 si sono presentate 1633 donne. Di cui solo il 30% residenti in città o in provincia. Il resto, sette donne su dieci, proveniva da altre zone: Napoli (il 50% delle pazienti) o Frosinone e Latina. Ma questo accadeva fino all’agosto di questo anno. Avendo già esaurito il budget a disposizione, la clinica S. Anna non effettua più aborti.
Se la regione o la città più vicina rappresentano la prima opzione, alle volte si sceglie anche di andarsene all’estero. In Gran Bretagna, ad esempio. Con quasi ottocento sterline molte cliniche praticano l’interruzione terapeutica. Nel paese (secondo i dati della Uk Abortion Statistics relative al 2012) la presenza delle italiane (oltre un centinaio) è seconda solo a quella delle irlandesi. Tenendo a mente, però, che per le leggi di Dublino, l’aborto è illegale. Fino a qualche anno fa anche la Svizzera era gettonata, ma come ci spiega il dottor André Seidenberg dell’Università di Zurigo «l’anno scorso nella mia clinica è arrivata solo una donna italiana». Meglio allora la Spagna, o la Slovenia. Come ha fatto Anna, anni 37: «Sono partita senza la certezza di abortire. Una volta lì mi hanno sottoposta a una visita con ecografia, un colloquio con genetista e alla fine una commissione medica ha deciso se potevo procedere o meno. Io mi sono trovata molto bene, personale medico molto disponibile e scrupoloso».
RESISTENZA
Se spesso si decide di andarsene, altre volte invece ci attrezza per resistere. Alessandra fa parte di un piccolo ma agguerrito collettivo nato a Jesi (nelle Marche). È composto da una decina di donne (età media 33 anni) e ha adottato un nome che è un programma: «Collettivo Vialibera194». L’idea di formare un gruppo in difesa della legge che regola l’aborto ha preso corpo nel gennaio del 2013. «A Jesi – spiega in una mail il Collettivo – con l’obiezione degli ultimi ginecologi, nel luglio del 2012, non è stato più possibile accedere al servizio di interruzione di gravidanza. Una situazione che abbiamo ritenuto gravissima e insostenibile visto che si tratta di una prestazione garantita dal sistema sanitario nazionale».
Da qui l’idea di formare un gruppo di difesa della 194. Attraverso incontri, dibattiti e la creazione di un apposito blog, il Collettivo si è impegnato nel creare una rete di sostegno per l’applicazione della legge nelle Marche. E da maggio fino a settembre, ha raccolto oltre quattromila firme, messe nero su bianco in una petizione con la quale si chiede il ripristino della legalità non solo nella zona di Jesi e Fabriano, ma nell’intera regione.
In questa loro battaglia il Collettivo non è solo. Tra i co-promotori compaiono altri 58 soggetti, tra partiti politici locali, associazioni e piccole istituzioni. Il problema è che queste firme sono pronte ma nessuno vuole riceverle. «Stiamo attendendo ancora da parte dell’Assessore alla Sanità della Regione Marche, Almerino Mezzolani, un appuntamento, più volte rimandato, per la consegna della petizione». Nel frattempo nell’ospedale di Jesi il servizio è stato ripristinato solo parzialmente con un numero di interventi (otto in un mese) eseguiti da una ginecologa che con cadenza settimanale fa la spola tra Jesi e Fabriano.
Dunque, in Italia c’è una legge che dopo 35 anni è praticamente disattesa. E che, ormai, in pochi reclamano. Anche perché l’argomento spacca le maggioranze politiche. Come è successo in Toscana lo scorso 2 ottobre quando, in Consiglio regionale, la maggioranza di centro sinistra si è divisa (compreso il Pd) su una mozione, primo firmatario il capogruppo Fds-Verdi Monica Sgherri, che impegnava, tra l’altro, la Giunta toscana a «emanare atti che prevedano con effetto vincolante per tutte le strutture dove si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza per assicurare la piena applicazione della legge 194, e di istituire elenchi di medici obiettori e non obiettori». Il documento era stato sottoscritto da vari consiglieri di maggioranza, specialmente donne. La mozione fu respinta, per un solo voto di scarto, anche per colpa delle numerose assenze in aula e i voti contrari di alcuni consiglieri Pd (di area ex Margherita), che non hanno seguito il resto del proprio gruppo ed hanno votato contro la mozione insieme all’opposizione.
Di legge 194, dunque, meglio non parlarne. Racconta ancora Andrea Cataldi in una lettera recapitata anche al Tribunale del malato di Ancona: «Simona mi stringeva come se fossi l’unica sua speranza, assisto al parto, ed al raschiamento che ne segue. Vedo nascere mio figlio Francesco e lo vedo morire. Se non fosse stato per un’unica mezz’ora» nella quale hanno ricevuto assistenza medica, «in pratica l’interruzione di gravidanza l’avremmo dovuta gestire autonomamente, nella più totale solitudine di una stanzetta le cui pareti incombono ancora sui ricordi. Poi tutto finisce e ci chiediamo di dimenticare, dobbiamo solo dimenticare. Ma si può?»