Sergio Romano, Corriere della Sera 5/12/2013, 5 dicembre 2013
L’ITALIA E LA GRANDE GUERRA UN NEGOZIATO SU DUE FRONTI
L’Italia e la Grande Guerra: ne valeva la pena? Nei giorni scorsi si è celebrato il 95° anniversario della vittoria italiana alla fine della prima guerra mondiale. Molti storici austriaci affermano che nei primi mesi del 1915, al fine di evitare l’apertura di un «terzo fronte» oltre a quelli in Galizia e in Serbia dove l’Impero stava subendo dei rovesci, il governo di Vienna dette inizio a dei negoziati affinché l’Italia restasse neutrale. Sembra che, entrando in guerra, il nostro Paese non ottenne in realtà, alla fine del conflitto, molto di più di quanto le veniva offerto nel 1915 «senza colpo ferire». Alla luce dei documenti oggi accessibili sia negli archivi di Roma sia in quelli di Vienna, ci può spiegare come in realtà andarono le cose? Non dimentichiamoci che l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra ci costò circa 600.000 morti, un numero ancora maggiore di feriti e dispersi, e un paese, alla fine del 1918, ridotto allo stremo. Infine occorre ricordare gli anni di disordini sociali che ne seguirono e che ebbero poi, come conseguenza, la fine dello stato liberale.
Franco Cosulich
Fiamex05@alice.it
Caro Cosulich,
L a prima preoccupazione del governo italiano, dopo l’attentato di Sarajevo, fu quella di dimostrare agli alleati della Triplice che una eventuale dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia non avrebbe comportato obblighi per l’Italia. Questa fu la tesi di Giolitti e divenne da quel momento la linea a cui la diplomazia italiana si sarebbe attenuta per qualche mese. Vi erano personalità e gruppi, nel mondo politico e militare, per cui l’Italia, indipendentemente dagli impegni formalmente assunti, sarebbe dovuta scendere in campo a fianco degli Imperi centrali. Ma il fronte triplicista era largamente compensato dall’esistenza di un altro fronte, democratico e irredentista, per cui il posto dell’Italia era accanto alle grandi democrazie europee, Francia e Gran Bretagna.
Quasi tutti, comunque, pensavano che l’Italia non potesse restare estranea a un conflitto che avrebbe ridistribuito il peso delle singole potenze nell’intero teatro europeo. Occorreva quindi negoziare subito i compensi (previsti dalla Triplice Alleanza) per l’eventualità di una vittoria austriaca. Ma Vienna, per qualche mese, sostenne capziosamente che la sua guerra alla Serbia, dichiarata in agosto, non era offensiva ma difensiva e che l’Italia, quindi, non aveva diritto ad alcun compenso. Cambiò parzialmente idea grazie alle pressioni di Berlino e finì per promettere che l’Italia avrebbe avuto il Trentino sino al confine linguistico di Salorno. Ma aggiunse che le sarebbe stato consegnato soltanto dopo la fine della guerra. Sulla questione di Trieste, Vienna fu ancora più rigida: avrebbe accettato tutt’al più di farne una «città libera» legata economicamente all’impero austro-ungarico. A Roma tutti sapevano quanto poco amichevoli fossero i sentimenti dell’opinione pubblica austriaca per l’Italia e avevano qualche buona ragione per temere che un’Austria vincitrice, alla fine della guerra, non avrebbe rispettato gli impegni.
In Italia era cresciuta nel frattempo la febbre interventista e si era creato un fronte anti austriaco che andava da Mussolini a Gaetano Salvemini, dai sindacalisti rivoluzionari ai futuristi, dai democratici ai nazionalisti, dai poeti agli imprenditori. Fu questo il contesto in cui il governo Salandra-Sonnino negoziò a Londra con Francia, Gran Bretagna e Russia un patto molto più generoso di quello che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe strappato all’Austria. Credo che la neutralità sarebbe stata la migliore delle scelte possibili, ma riconosco che la guerra ebbe molti padri e che è troppo facile avere ragione con il senno di poi.