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 2013  dicembre 05 Giovedì calendario

YAN, L’OPERAIO CINESE CHE HA FATTO CONDANNARE IL SUO SFRUTTATORE WANG


A dargli la notizia è stata Benedetta Ciampi, l’avvocato di parte civile del Comune di Prato. «Hai vinto tu, li hanno condannati tutti». E lui, «Yan il clandestino», il «reietto» e lo «spione», il primo a denunciare i suoi aguzzini (già in 5 sono pronti a imitare il suo gesto), costretto da tre anni a vivere in un luogo segreto, sotto protezione, lontano dalla sua gente, ha sorriso e con un inchino ringraziato.
Non è solo una causa vinta, quella di Yan e dei suoi legali. Alle 5 del pomeriggio di ieri, il giudice dell’udienza preliminare di Prato, Luca D’Addario, ha pronunciato per la prima volta una sentenza storica a favore di un uomo indifeso che ha avuto il coraggio, primo cinese a Prato, di denunciare i suoi sfruttatori. La decisione del giudice è andata al di là delle richieste del pm. Il padrone della fabbrica-dormitorio, la Susan Confezioni di via Bechi 9-11, nel cuore del Macrolotto a due passi dal capannone dove sono morti i sette operai, è stato condannato a 2 anni e 2 mesi di carcere, senza condizionale e senza sospensione della pena. Si chiama Conglin Iang, ha 49 anni ed è colpevole di sequestro di persona, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni personali colpose (il pm aveva chiesto 1 anno e 7 mesi). La moglie Jongxiam Wang (l’accusa la voleva prosciolta) è stata condannata a 1 anno per favoreggiamento e lesioni colpose e un terzo cinese, Ian Ming Wang è stato rinviato a giudizio. Il magistrato ha anche disposto una provvisionale di 15 mila euro a favore della vittima. In sede civile il risarcimento potrebbe superare i 70 mila euro.
Non sono i numeri a fare la differenza, stavolta, ma la ribellione di un uomo arrivato a Prato poco più che ragazzo dalla provincia dello Zhejiang, il 9 marzo del 2006, nel giorno del suo 24esimo compleanno, aggirando le frontiere dell’Europa. Gli avevano detto che a Prato non avrebbe dimenticato il suo Paese e trovato un lavoro. «E lì, in via Pistoiese (la Chinatown della città, ndr ) su una bacheca di un supermercato cinese il lavoro mi si presenta con il numero di telefono di Coglin Jiang — racconta —, il proprietario della Confezione Susan. Mi dice “tu devi lavorare 18 ore, dalle 7 del mattino all’una di notte e ti pagherò 1,40 euro l’ora. Avrai sei ore per mangiare e dormire».
Yan lavora a una pressa, lo fa per anni. Il padrone chiude a chiave la fabbrica e nessuno può uscire senza permesso. Deve stampare centomila etichette al giorno. E deve stare molto attento perché i macchinari sono poco più di ferri vecchi, insicuri, pericolosi. «Quel dannato 28 febbraio del 2009, alle 16, la macchina non si muove più. So che cosa devo fare: infilare le mani degli ingranaggi». La pressa si muove con uno scatto, è incandescente: divora la mano destra dell’operaio. «I padroni mi lasciano davanti al pronto soccorso — ricorda Yan —, ma prima mi dicono di raccontare che mi sono infortunato aggiustando un’auto. E mi dicono pure di non fare il furbo, perché il figlio dei padroni ha ottime conoscenze in questura».
Da Prato lo trasferiscono al centro grandi ustionati di Pisa e lo operano sei volte. La mano non risponde più. «Quando mi dimettono non ho un centesimo. Torno a Prato, dai padroni, mi promettono stipendio, vitto e alloggio. Vedo solo 50 euro per andare a Pisa per le medicazioni. Provo a lavorare con un guanto speciale ma il dolore è lancinante, il tormento infinito».
Yan è fuori. Passa alcune notti con i clochard poi incontra l’assessore all’Immigrazione, Giorgio Silli e l’avvocato Mirko Benedetti. Il 30 settembre, con loro, si presenta in questura con una strana luce negli occhi: «Mi chiamo Yan, sono clandestino, voglio presentare una denuncia».
Marco Gasperetti

mgasperetti@corriere.it