Massimo Gaggi, Corriere della Sera 5/12/2013, 5 dicembre 2013
«MEDIAZIONE DIFFICILE C’È UN SENTIERO STRETTO PER EVITARE UN CONFLITTO»
[Robert Kaplan]
Dopo Tokyo, dove Joe Biden ha appoggiato il Giappone nella disputa con la Cina, ma non fino al punto di chiedere la cancellazione della sua zona di difesa aerea appena creata unilateralmente dal gigante asiatico, il negoziato teso e lunghissimo di Pechino; il vicepresidente Usa a colloquio per oltre cinque ore col presidente cinese Xi Jinping. Fino a che punto può spingersi l’America nel ribilanciamento verso della sua politica estera verso il Pacifico e nel rafforzamento della presenza militare in Estremo Oriente?
«Gli Usa si muovono su un sentiero molto stretto — sostiene il celebre analista Robert Kaplan, firma di punta dell’Atlantic , autore di saggi importanti come «Monsoon», dedicato proprio allo spostamento del baricentro degli interessi statunitensi verso l’Asia e l’Oceano Indiano, ed ex consigliere del Pentagono negli anni in cui ministro della Difesa era Robert Gates —. Washington non si può far trascinare in un conflitto militare con la Cina, ma al tempo stesso è obbligata a difendere il Giappone che è legato all’America da un trattato di alleanza: un vincolo molto forte. Così, con la crescita delle spinte nazionaliste in Giappone e con la leadership cinese che a sua volta usa al suo interno il nazionalismo per distrarre i cittadini dalle difficoltà economiche che cominciano a manifestarsi anche nella grande economia asiatica, Washington fatica a evitare che le sue parti entrino in conflitto. Penso che Biden, a Tokyo come a Pechino, stia agendo essenzialmente da mediatore: non porta un’agenda, chiede alle parti cosa serve per evitare lo scontro militare».
Una zona di sorveglianza aerea, pur se decretata unilateralmente, può portare davvero a un conflitto tra la seconda e la terza potenza economica mondiale?
«In America diciamo “the bark is bigger than the bite” (più o meno, il cane che abbaia di più non è quello col morso più forte, ndr ): insomma, i cinesi hanno creato un’area di difesa e di identificazione, ma non sono in grado di farla rispettare. Non sanno come controllare i velivoli che l’attraversano. Non hanno una vera piattaforma tecnologica di identificazione, in questo i militari giapponesi sono molto più avanti. Per ora prevale lo show».
C’è, però, il rischio di incroci pericolosi perché l’area creata dalla Cina si sovrappone, almeno in parte, a quelle istituite a suo tempo da Giappone e Corea. Anche quelle decisioni unilaterali?
«Sì, ma ricordi che Tokyo e Seul fanno parte dell’Alleanza americana. Quando si muovono queste capitali il significato è più vasto: è chiaro che operano col consenso di Washington. Spazi per disinnescare il caso ce ne sono ancora, ma la mediazione è sempre più difficile».
Un problema in più per gli Stati Uniti sembra essere l’assenza, tanto al Dipartimento di Stato quanto alla Casa Bianca, di personaggi di spessore che conoscono a fondo l’Estremo Oriente e di cui i leader di quell’area si fidano.
«È vero. La speranza è che sia proprio Biden il nuovo plenipotenziario Usa nel Pacifico. Durante il primo mandato di Obama, il vicepresidente è stato l’uomo del ritiro dall’Iraq e del cambiamento di rotta sull’Afghanistan: ora che gli americani hanno lasciato Bagdad e si accingono a uscire di scena anche dall’Afghanistan, Biden potrebbe essere chiamato a dedicarsi soprattutto ai rapporti con l’Asia e le regioni del Pacifico».
A Tokyo si è appena insediata, come ambasciatore Usa, Caroline Kennedy. La mancanza di esperienza diplomatica della figlia di JFK sarà un problema?
«Non necessariamente: quella sede diplomatica è grande, ha molti esperti qualificati. All’ambasciatore non mancheranno i buoni consigli».
Pensa che le rivendicazioni cinesi abbiano qualche fondamento e che Xi abbia deciso autonomamente di giocare la carta nazionalista o subisce la pressione dei militari e del partito?
«Tutte e due le cose: le forze armate cinesi sono quelle che crescono più rapidamente in Asia, e premono sul potere politico. Prima di provocare il Giappone e la Corea hanno provocato, più a sud, il Vietnam e le Filippine. La cosa non dà vantaggi esterni alla Cina che avrebbe tutto l’interesse ad essere percepita dai vicini come una potenza pacifica, un buon partner negli affari. Ma queste tensioni fanno gioco, in chiave interna, anche a Xi Jinping: un gioco molto pericoloso. Quanto alla fondatezza delle rivendicazioni, la storia offre elementi a tutti e due i contendenti. Cosa che, purtroppo, rende pressoché impossibili soluzioni nette e durature delle controversie».