Maria Corbi, La Stampa 5/12/2013, 5 dicembre 2013
MIA MOGLIE ZHENG È MORTA PER SOSTITUIRMI ALLA MACCHINA QUI IL LAVORO NON SI FERMA MAI
Non sono fantasmi, non sono corpi che nessuno reclama, ognuna delle vittime ha un nome, una storia, parenti e amici che li piangono. «Non siamo fantasmi», ripete chi conosce meglio la nostra lingua. «Ma forse vi fa piacere crederlo. Questa tragedia è nostra». Zhang ha partecipato alla fiaccolata, è andato a via Toscana a pregare davanti alle foto dei morti. Conosceva una delle donne, Zheng Xiuping, e conosce suo marito che quando è successa la tragedia era in Cina con i due figli. «Lo hanno avvertito ed è venuto sperando che si trattasse di uno sbaglio, è disperato». Una storia come tante, quella di Zheng Xiuping, che mescola disperazione, speranza, miseria. In Italia risulta clandestina ma «non lo è», dice il marito: «Non aveva ancora il permesso di soggiorno perché lo aveva richiesto a Napoli, dove aveva lasciato anche le sue impronte digitali». Ma questi, di fronte alla perdita, sono dettagli. Lo avvertono domenica sera, «un conoscente mi ha telefonato dall’Italia dicendomi che era successa una tragedia nella ditta pratese in cui lavorava mia moglie. A questo punto mi sono subito mosso per partire per Prato».
Non si dà pace il marito, avrebbe voluto esserci lui al posto della moglie. «Anche io prima lavoravo in quella confezione poi sono partito e lei mi ha sostituito in qualche modo». Si davano il cambio con Zheng a lavorare qui in Italia in modo che i figli non rimanessero soli per mettere da parte i soldi con il sogno di tutti i cinesi qui a Prato: una casa e un futuro meno misero. Nata nel 1963 nella provincia di Fujan la donna dimostrava meno anni di quelli che aveva. Taciturna, a differenza di tante sue connazionali cercava di imparare l’italiano. La sorella, anche lei in Italia da anni, non la vedeva quasi mai e adesso le sue lacrime sembrano voler colmare la distanza. «Lavoravamo sempre, non c’era tempo per altro». Ricorda quando la sorella le diceva che si trovava bene, che qui «i padroni erano buoni», che anche la sistemazione era calda. Fino a poco tempo fa abitava in una casa con altri connazionali, poi la decisione di stare in fabbrica per spendere meno. Era tornata da poco in Italia, Zheng, dopo una vacanza in Cina. Lavorava duro e metteva da parte ogni euro che poi spediva a casa attraverso i money transfer di via Pistoiese, come tutti qui.
Una sua amica la piange e mentre lo fa piange se stessa. Guarda il capannone di via Toscana e scuote la testa. Anche lei lavora lì vicino e dorme in uno dei loculi di cartongesso. Conosceva Zheng? «Poco, di vista», dice in un italiano stentato tormentandosi la mano fasciata da un guanto di Hello Kitty. Un ragazzo che le sta vicina traduce: «Dice che comunque voi non sapete come stiamo in Cina e che è meglio fare gli schiavi qui. Per noi chi ci paga non è uno sfruttatore». Sfreccia vicino un potente Suv con a bordo una coppia di cinesi. Loro sono ricchi, perché? Ma nessuno risponde, alzano le spalle e se ne vanno.
Accettano di parlare solo di Zheng Xiuping perché nessuno dica che «era un fantasma». Un cinese che parla perfettamente l’italiano spiega che «è questa la cosa che li offende, il fatto che voi italiani possiate pensare che per loro questa tragedia non esiste e non esistono i morti. In questo che dite c’è del razzismo e un’idea sbagliata di noi».
La sorella racconta che qui tutti lavorano tanto. «Noi siamo abituati così». Vicino al capannone della morte, al Macrolotto, altri stabilimenti continuano a produrre vestiti che andranno in tutta Europa, caricati su di notte. Qualcuno dice «chi ku», detto cinese, ossia «mangiare l’amaro», affrontare le difficoltà, il dolore, la fatica con la speranza di giorni meno duri che per Zheng Xiuping non arriveranno più.