Manuel Gandin, Famiglia Cristiana 5/12/2013, 5 dicembre 2013
LA MIA VERITÀ È NELLA CRUNA DELL’AGO
Marchesinate, lei le chiama così. Anna Marchesini continua a sorridere di sé stessa e del mondo, con garbo e discrezione, elementi che di questi tempi sembrano di pochi eletti, persone che sanno capire il senso della vita in profondità, perché tanto la vita da e tanto, a volte, toglie. L’attrice, la regista e la scrittrice si condensano in una persona che ama la vita in ogni sfumatura, così, quando chiediamo come mai abbia inventato un sostantivo che non esiste per il titolo del suo libro, risponde come se fosse del tutto normale: «L’ho chiamato Moscerine, già, una marchesinata, niente di più. Mi sono chiesta: se esiste il moscerino, dovrà esistere anche una moscerina, no? In realtà, penso che la potenza di un dettaglio possa provocare cambiamenti enormi nella vita delle persone. E questo vale per tutti, anche per una moscerina, come nei miei racconti». Moscerine (Rizzoli, pp. 250, euro 17) racconta nove storie, nove vicende in cui i personaggi finiscono per essere “catturati” improvvisamente da particolari all’apparenza insignificanti, ma che determinano i cambiamenti di cui l’autrice parla: «Sì, in ogni racconto c’è una storia piccola, un universo dentro la cruna dell’ago», spiega nel salotto della sua casa. In un angolo della sala, un teatro di burattini uguale a quelli che ancora oggi si vedono in alcune città, con un parallelepipedo che può nascondere una persona capace di animare i pupazzi e dar loro voce. E uno dei simboli dell’arte della finzione, della recitazione, anche se Marchesini specifica che tra la realtà e la recitazione il legame è complesso: «Recitare implica dire la verità delle cose, del mondo, anche se può sembrare una contraddizione. Perché una cosa è la finzione, un’altra è recitare».
E se si parla di recitazione, non può non tornare alla mente il Trio che ha visto, per anni, Anna Marchesini assieme a Massimo Lopez e a Tullio Solenghi: «Siamo sempre stati molto uniti. Ci sono sempre rispetto, amicizia e professionalità. Ci sentiamo spesso anche adesso che le nostre strade sul palcoscenico si sono separate. Quando Massimo ci disse che voleva fare altre cose da solo ci dispiacque, ma ci è sembrata anche la cosa più naturale e giusta».
Com’era stare fra due uomini?
«Mi sono sempre sentita un fusillo dentro un pacco di maccheroni, ma a me va bene cosi. Tutto sommato, se penso a quello che abbiamo fatto, mi sembra che avevamo la sensazione del successo, si, ce l’avevamo, e alla fine forse un po’ ci pesava la responsabilità di dover essere sempre all’altezza delle aspettative. Tanto per dire, quando abbiamo fatto la parodia dei Promessi sposi, io mi sono letta Manzoni ben 17 volte per capire al meglio il personaggio, e questo nonostante la nostra fosse solo una parodia leggera».
E la sua passione per la scrittura? Fa parte del “dopo-Trio” o è un’attività che c’è sempre stata?
«Io ho sempre letto molto, fin da ragazzina. Creavo un rapporto con il silenzio, che all’inizio mi dava paura, un senso di vuoto. Poi, però, essendo molto curiosa, anziché scacciare quella paura evitandola, ho capito che in ogni caso le paure generano curiosità. E allora più c’era silenzio più leggevo, più leggevo più amavo il silenzio. E quando leggevo i capolavori della letteratura pensavo: l’hanno scritto loro, non posso pensare di essere alla pari con loro. Poi, più tardi, ho cominciato a scrivere, ma solo per me stessa. Lo stimolo arrivò dopo la lettura integrale della Recherche di Proust. Quando mi sono decisa a sottopone qualcosa a una casa editrice e mi sono sentita rispondere che no, non andava bene, sono stata molto soddisfatta».
Perché?
«Se avessero accettato avrei vissuto con un dubbio: mi dicono di si perché sono brava o perché c’è dietro un nome conosciuto dal pubblico e che, quindi, può vendere? Così, quando finalmente mi hanno detto sì ho avuto la convinzione che fosse ampiamente meritato».
Era due anni fa, e Il terrazzino dei gerani timidi ebbe un ottimo successo editoriale. L’anno scorso ha pubblicato Di mercoledì e adesso ecco le Moscerine. «Ho impiegato sei, sette mesi per scriverlo, è venuto fuori facilmente. Io stessa guardavo con un certo stupore le pagine che avevo scritto».
Quando scrive pensa ancora al teatro, alla possibilità di una scrittura che sia anche trasferibile sul palcoscenico?
«Non sempre. Credo che di Moscerine solo l’ultimo racconto. Girino e Marilda non si può fare, sia stato scritto pensando al teatro. Lo vedo su un palco con tre musicisti di jazz, è un racconto che si presta, di certo più degli altri otto».
Lei si divide tra la scrittura e l’insegnamento teatrale in accademia...
«Sì, ma non voglio insegnare a recitare, semmai a fare una scena. La domanda che pongo è: come posso interpretare questo personaggio? Non mi occupo di recitazione, ma di chi recita».
E i giovani dell’accademia come sono rispetto a quando lei iniziava i primi passi in teatro?
«Oggi i ragazzi faticano ad avere confidenza con sé stessi, rispetto a quando avevo io vent’anni. Ci vuole un notevole sforzo a entrare dentro di noi e da questo punto di vista i ragazzi di oggi sono più in difficoltà».
Più facile essere comici o attori drammatici?
«L’arte comica è la più difficile. Quello che so per certo è che il comico non è mai superficiale, va alla radice delle cose e fa vedere tutte le facce della realtà, a cui fa fare una capriola».
Ironia e autoironia nel comico sono una via obbligata?
«L’ironia aiuta a vivere, perché apre più strade. L’autoironia, invece, è un’arma che difende, anche da noi stessi».