P. R. Kumaraswamy, Limes 10/2013, 5 dicembre 2013
LA BATTAGLIA DI CASA SA’ÙD
A DIFFERENZA DI ALTRI PAESI MEDIORIENTALI, l’instabilità politica dell’Arabia Saudita non gravita soltanto attorno alle proteste popolari. Sebbene le ondate di manifestazioni radunate sotto l’etichetta di «primavera araba» abbiano lambito anche il maggior produttore al mondo di greggio, con sollevamenti specialmente tra le minoranze sciite, una sfida ben più seria per la tenuta del regime viene dall’interno della monarchia, ossia dalla stabilità dei Sa’ùd, la famiglia che governa lo Stato sin dalla sua fondazione nel 1932.
Attraverso diversi matrimoni, la maggior parte dei quali manovre politiche mascherate, il fondatore ’Abd al-’Aziz (ribattezzato Ibn Sa’ùd) procreò almeno 36 figli e 21 figlie. Dalla sua morte nel 1953, cinque di questi sono ascesi al trono. Il figlio vivente più giovane, Muqrin, nominato nel febbraio 2013 erede dell’erede al trono, ha 68 anni. Di fronte alla senescenza della classe governativa, molti osservatori hanno sollevato dubbi sulla sopravvivenza nel lungo periodo dei Sa’ùd. La sfida più grande dell’ottantanovenne rE ’Abdallàh è presiedere una successione tranquilla. Compito non facile, essendo stato operato nel novembre 2010 negli Stati Uniti di ernia al disco e avendo dovuto interrompere bruscamente la convalescenza in Marocco per l’esplosione delle proteste popolari nel vicino Bahrein. Né il successore designato Salmàn pare godere di splendida salute, sebbene più giovane di dieci anni. Indovinare il prossimo sovrano o erede è molto più che un gioco.
2. Il processo della successione in Arabia Saudita è stato sinora relativamente ordinato, ben definito e più trasparente che in alcune delle principali democrazie al mondo, imperniato sin dalla fondazione del regno su un oliato meccanismo di selezione. In Arabia Saudita, il re è anche il primo ministro e il principe della corona, l’erede al trono, è anche vice premier. Nel 1967 fu introdotta la carica di secondo vice primo ministro, il terzo nella linea di successione. Questa impostazione ha funzionato per più di otto decenni, con i figli non attivi in politica esclusi più o meno volontariamente dalla lizza. Solo i principi della corona sono ascesi al trono e solo alla morte del re; momento in cui i secondi vice primo ministro venivano elevati alla carica di principe della corona.
Il casato dei Sa’ùd ha inoltre dimostrato una longevità senza pari. Dal 1932, solo sei uomini hanno governato lo Stato saudita: il fondatore ’Abd al ’Aziz (1932-1953) e cinque dei suoi figli, Sa’ùd (1953-1964), Faysal (1964-1975), Wd (1975-1982), Fahd (1982-2005) e ’Abdallàh dal 2005. Di questi, Sa’ùd fu costretto ad abdicare e Faysal fu assassinato da suo nipote mentre gli altri si sono spenti al potere. Nello stesso arco di tempo, gli Stati Uniti hanno avuto 14 presidenti, il Regno Unito 18 primi ministri e l’Italia 69 governi.
L’abdicazione è solitamente estranea al vocabolario di un monarca. Come per il papa, la rinuncia volontaria è rara e attira per questo grande attenzione internazionale. La recente abdicazione di FIamad al-Tànì in Qatar in favore del figlio Tamim ne è la conferma. In Arabia Saudita la rimozione o la rinuncia di un re non sono la norma sia pur con la significativa eccezione di Sa’ùd. Nel novembre 1995, per esempio, re Fahd fu fiaccato da un infarto: in circostanze normali sarebbe stato sostituito. In Arabia Saudita no: Fahd rimase sul trono fino alla morte nell’agosto 2005, con il principe della corona ’Abolall’ah a farne le veci. Mantenere Fahd formalmente al potere servì a preservare 1’unità interna del casato dei Sa’ùd.
Con la nomina a secondo vice primo ministro di Muqrin, ultimo della prole di ’Abd al-’Aziz, la regola fin qui seguita diviene inapplicabile. Il prossimo nella successione dovrebbe infatti essere scelto tra i nipoti o tra i bisnipoti. Entrambe le opzioni amplieranno quindi il ventaglio delle scelte e saranno foriere di tensioni e conflitti: cercare il futuro re nel primo gruppo implicherebbe che l’Arahia Saudita sarà ancora governata da un ultrasessantenne; viceversa, selezionare dal secondo gruppo vorrebbe dire saltare un’intera generazione.
Ben prima che il tema diventasse di moda tra gli osservatori del palazzo, la famiglia reale si è preoccupata dell’invecchiamento dei governanti, stabilendo e sviluppando una serie di meccanismi istituzionali che assicurassero transizioni tranquille’e ordinate. In una delle sue prime operazioni politiche, re ’Abd al-’Aziz istituì la carica di vice primo ministro, nominandovi il figlio più anziano Sa’ùd. Il meccanismo fu rafforzato nel 1967, quando re Faysal creò la posizione di erede dell’erede al trono, il secondo vice primo ministro.
Questi due istituti hanno stabilito una chiara linea di successione e smorzato i possibili intrighi di palazzo, dimostrandosi a lungo efficaci. L’attuale re ’Abdallàh è diventato secondo primo ministro nel 1975 in seguito all’assassinio di Faysal, quindi principe della corona alla morte di Hàlid e poi, con Fahd debilitato dall’infarto, governante de facto del paese. Una volta diventato re nell’agosto 2005, ’Abdallàh ha nominato il fratellastro Sultàn principe della corona dopo che questi aveva ricoperto la carica di erede dell’erede dal 1982. Successivamente ha scelto Nàyif come secondo vice primo ministro, il quale, deceduto Sulfàn nel 2011, è diventato principe della corona. Alla sua scomparsa nel 2012, Salmàn è stato nominato principe della corona.
Le recenti morti dei due principi della corona, unitamente ad alcune riforme istituzionali, hanno aggiunto una nuova dimensione alla questione. A partire dai primi anni Novanta, i Sa’ùd hanno infatti apportato altre due modifiche al meccanismo della successione. La prima fu introdotta dalla legge fondamentale del marzo 1992. Conscio della senescenza della dinastia, re Fahd introdusse il principio secondo cui «i governanti del paese proverranno dai figli del fondatore ’Abd al’Aziz (...) e dai loro discendenti».
Inoltre, «il più retto tra essi riceverà l’obbedienza» dei membri della famiglia reale. In altre parole, alla linea di successione orizzontale si aggiungeva quella verticale, generazionale. Inoltre, l’anzianità non era più l’unico criterio per la scelta del nuovo re. L’ulteriore condizione della rettitudine è interpretata da molti come un eufemismo per intendere la capacità del prescelto di radunare consensi nell’ampio universo del regno, fungendo quindi da collante della dinastia.
Oggi gli osservatori più attenti identificano due dozzine di contendenti per la successione ambiziosi e politicamente attivi. Se si passasse alla generazione dei bisnipoti del fondatore si assisterebbe a una lotta tra più di cento potenziali aspiranti al trono. Una simile prospettiva ha costretto re ’Abdallàh a perseguire in modo molto cauto la sua agenda di riforma. Tuttavia, con la nomina del «giovane» Muqrin a secondo vice primo ministro, il sovrano ha indicato che il prossimo erede dell’erede dovrà essere scelto tra i discendenti dei figli di Ibn Sa’ùd. Un ricambio generazionale anticipato dall’avvicendamento tra Nàyif e suo figlio Muhammad alla morte del primo in un ministero chiave come quello dell’Interno.
La seconda modifica apportata di recente data ottobre 2006, quando ’Abdalliih istituzionalizzò il processo di successione attraverso la ha’yat al-bay’ah o Consiglio di obbedienza, incaricato di dare alle famiglie dei figli del fondatore voce in capitolo nella selezione del futuro monarca. Presieduto dal più anziano discendente di Ibn Sa’ùd, si compone di 30 membri scelti tra i figli e i nipoti del fondatore del regno. L’organismo ha un ulteriore compito: nel caso il monarca o l’erede al trono fossero incapaci di governare, cinque membri del consiglio ne dovrebbero assumere le responsabilità in via transitoria per una settimana, scaduta la quale occorrerebbe trovare una soluzione definitiva.
Le norme e le istituzioni create negli anni dai vari governanti hanno reso la partita della successione in Arabia Saudita meno incerta che in altre monarchie mediorientali. Nonostante non abbia un erede, il sultano dell’Oman non ha nominato un potenziale successore. In Qatar, Hamad al-Tàni depose il padre nel 1995. In Giordania, sia re Husayn che suo figlio ’Abdallàh hanno sostituito i principi della corona: nei momenti cruciali, entrambi hanno preferito ai rispettivi fratelli i propri figli, assicurando la successione all’interno della loro prole.
3. Per circa quattro decenni, un potente gruppo di principi comunemente noto come «i sette Sudayri» ha esercitato notevole influenza nel casato dei Sa’ùd. Si tratta dei figli del fondatore ’Abd al-’Aziz avuti da Hassa bint Ahmad al Sudayri, figlia del membro di un potente clan del Nagd. Il più anziano di questo gruppo, Fahd, è stato nominato nel 1967 secondo vice primo ministro, ossia terzo nella linea di successione dopo re Faysal e il principe della corona Hàlid. Suo fratello Sultàn è diventato ministro della Difesa nel 1963, poltrona occupata fino alla morte nell’ottobre 2011. Fahd è salito al trono nel giugno 1982, Sultàn e Nàyif sono stati principi della corona, il primo tra l’agosto 2005 e l’ottobre 2011 e il secondo tra l’ottobre 2011 e il giugno 2012.
I recenti decessi e le abili manovre di re ’Abdallàh hanno emarginato i sette Sudayri. Uno di questi, ’Abd al-Rahman, è stato dal 1978 vice primo ministro della Difesa (sostituendo un altro fratello) sotto Sultàn, per poi finire sollevato da ogni incarico nel giro di poche settimane alla morte di quest’ultimo. L’unico membro dei sette Sudayri a esercitare una forte influenza politica è Salmàn, l’attuale principe della corona, considerato un fido alleato di re ’Abdallàh.
Come in ogni casato che si rispetti, anche i Sa’iìd non sono estranei agli intrighi di palazzo. Il secondo re, Sa’ùd, fece infuriare gli altri principi cercando di promuovere la sua prole a discapito dei fratelli, portando alla clamorosa destituzione guidata da Faysal. Le colpe del padre ricaddero su figli e nipoti. difatti banditi da ogni incarico influente o di potere. Sorte diversa rispetto a quella toccata alla progenie del ben più popolare Faysal, il cui figlio Sa’ùd al Faysal è il ministro degli Esteri più longevo al mondo, in carica dall’ottobre 1975. Un altro figlio, Turki, a capo dei servizi segreti per più di un quarto di secolo, si è dimesso solamente a poche settimane dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Nonostante abbia in seguito rivestito la carica di ambasciatore a Londra e a Washington, negli ultimi anni non gode più dei favori del re e ha finito per essere emarginato. Ulteriore dimostrazione dell’abbondanza di intrighi tra i Sa’ùd: re Faysal fu ucciso dalle pallottole sparate da un nipote proprio nel palazzo reale.
Nelle prime fasi della sua carriera politica, anche ’Abdallàh rischiò di cadere vittima delle trame degli altri principi, soprattutto di quelle tessute dai sette Sudayri. Lo scontro si giocò sul tema della Guardia nazionale, una milizia tribale che aiutò Ibn Sa’ùd a conquistare la Penisola Arabica, ribattezzata con l’attuale nome a inizio anni Cinquanta e dal 1962 comandata da ’Abdallàh. La prima responsabilità di questo corpo consiste nel mantenimento della sicurezza e della stabilità del casato: di qui la possibilità di costruirsi una base di potere indipendente e di esercitare una discreta influenza negli affari di famiglia. Proprio per questo motivo, poco dopo la nomina di ’Abdallàh a terzo nella linea di successione nel 1975, forti furono le pressioni perché rinunciasse al controllo sulla Guardia nazionale. Se il futuro sovrano avesse ceduto avrebbe visto erosa la sua influenza, specialmente tra i gruppi tribali principali che formano i ranghi del corpo. ’Abdallàh non vacillò e mantenne il controllo sulla Guardia nazionale fino al novembre 2010, quando, ormai saldo sul trono, cedette il comando al figlio Mut’ib, già vice assistente comandante dal 2000.
Si pensò inoltre che i sette Sudayri si sarebbero radunati attorno al loro membro più anziano, l’allora re Fahd, per aggirare ’Abdallàh e nominare Sultàn principe della corona. Tuttavia Fahd scelse ’Abdallàh come suo successore proprio in virtù dell’appoggio che questi gli garantiva in qualità di comandante della Guardia nazionale e della sua abilità di schivare le trappole dei sette Sudayri forgiando alleanze con altri membri del casato.
Alcune azioni di re ’Abdallàh hanno confermato quanto forti siano le tensioni all’interno della famiglia reale. Fin dalla sua creazione, la carica di secondo vice primo ministro ha attirato notevoli attenzioni e la nomina si è solitamente rivelata veloce. Non sotto ’Abdallàh. Sebbene abbia governato de facto il regno per quasi un decennio prima di ascendere al trono, questi non ha avuto fretta nella scelta dell’erede dell’erede. Ci sono voluti quattro anni perché nel marzo 2009 ’Abdallàh nominasse il fratellastro Nàyif, per giunta sotto la spinta delle precarie condizioni di salute del principe della corona Sultàn, che gli imponevano lunghi periodi di assenza e di degenza, tanto da impedire spesso i viaggi all’estero di ’Abdallàh. Al contrario, Salmàn è stato nominato erede dell’erede dopo poche ore dalla morte del principe della corona Sultàn nell’ottobre 2011. Anche Muqrin è stato nominato secondo vice primo ministro sette mesi circa dopo la morte del principe della corona Nàyif.
Il ritardo nella nomina di quest’ultimo si è rivelato un’indicazione delle differenze fra le sue opinioni e quelle di re Ahdallàh sui contenuti e sulla velocità delle riforme sociali e politiche. Nàyif, all’epoca ministro dell’Interno di lungo corso, rappresentava le correnti più conservatrici del regno, apertamente contrarie alla possibilità di concedere la patente di guida alle donne. L’immediata nomina di Salmàn a erede dell’erede ne suggerisce la maggiore vicinanza alle posizioni del re.
Alcuni dei figli del fondatore hanno controllato interi ministeri per decenni. Sultàn è stato al vertice della Difesa tra 1963 e 2011 mentre Nàyif ha guidato l’Interno tra 1975 e 2012. Entrambi hanno mantenuto le cariche una volta nominati eredi al trono. Il principe della corona Salmàn è rimasto governatore di Riyad tra 1962 e 2011, quando è diventato ministro della Difesa in seguito alla morte di Sultàn. Il breve periodo trascorso da principi della corona di Sultàn e Nàyif ha notevolmente ridotto le loro possibilità di posizionare la propria prole in posti chiave. A differenza di quanto fatto con successo da re ’Abdallàh: il figlio Mut’ib è il comandante della Guardia nazionale; l’altro figlio ’Abd al-’Azìz è vice ministro degli Esteri dal 2011 (e con le precarie condizioni di salute di Sa’ùd al-Faysal è chiamato a gestire il ministero per gli affari correnti); il genero Faysal ibn ’Abdallàh, sposo di ’Adila, è il ministro dell’Educazione.
4. Alcune delle recenti iniziative saudite in politica estera non hanno avuto successo. Per quanto sia difficile attribuire un effetto diretto, le difficoltà nella partita della successione impattano sulla capacità del regno di adottare una politica unitaria ed efficace sui maggiori problemi strategici del Medio Oriente.
In seguito all’11 settembre e alla conseguente pubblicità negativa per l’islam e in particolare per l’Arabia Saudita, nel febbraio 2002 l’allora principe della corona ’Abdallàh propose un piano in base al quale i paesi arabi avrebbero riconosciuto Israele in cambio del ritorno dello Stato ebraico entro i confini del 1967. Il summit di Beirut del mese successivo avrebbe dovuto ufficializzare il sostegno al piano. Tuttavia, l’intensa pressione siriana fece sì che l’iniziativa di pace esigesse che tutti i capitoli del conflitto arabo-israeliano fossero risolti in ossequio alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Una simile richiesta imponeva a Israele di conformarsi alla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale, di fatto accettando il ritorno di un numero imprecisato di rifugiati e quindi rinunciando al proprio carattere ebraico. La Siria ha fatto deragliare anche gli sforzi sauditi per stabilizzare il Libano, non essendo Damasco disposta a cedere l’influenza su Beirut e su Hizbullah. E vani si sono rivelati pure i tentativi di re ’Abdallàh di mediare nel conflitto inter-palestinese tra Fath e Hamàs attraverso gli accordi della Mecca del marzo 2007.
La cosiddetta primavera araba ha rivelato la distanza tra l’Arabia Saudita e le masse arabe. Lungi dal simpatizzare con le proteste popolari in Tunisia, re ’Abdallàh ha offerto rifugio a Zayn al-’Abidin bin ’Ali (Ben Ali) e alla sua famiglia. Lo stesso vale per l’Egitto. Mentre in piazza Tahrir sciamavano i manifestanti contro Mubarak, il re accusava gli egiziani di generare anarchia. Quando il presidente Muhammad Mursi è stato deposto dai militari nel luglio 2013, Riyad è stata una delle prime capitali ad abbracciare il nuovo regime sponsorizzato dall’esercito offrendo assistenza e aiuti finanziari.
I disordini nel vicino Bahrein hanno invece evidenziato quale sia il tallone d’Achille saudita. Le proteste a Manama potevano agli occhi dei Sa’ùd innescarne di simili nel regno, soprattutto attivando le minoranze sciite emarginate. Così, sfruttando la scusa del coinvolgimento iraniano, Riyad ha guidato sull’isola le truppe della Peninsula Shield Force, braccio armato del Consiglio di cooperazione del Golfo. La determinazione saudita nel prevenire una soluzione politica della crisi e nell’impiegare la forza a sostegno del re Hamad al-Halìfa ha inoltre palesato le differenze tra Riyad e l’amministrazione Obama: la tenuta della monarchia bahreinita ha avuto molto più a che vedere con l’intervento saudita che non con l’appoggio accordato dal presidente americano.
La continuazione della «primavera araba», specialmente nel vicino Bahrein, le incertezze occidentali sullo scacchiere striano e la mancata soluzione delle controversie sul programma nucleare iraniano aumentano le già serie sfide che i Sa’ùd devono affrontare. Gli sviluppi del processo di successione determineranno non solo il futuro della famiglia reale e del paese ma anche la stabilità dell’intero Golfo Persico.
(Traduzione di Federico Petroni)