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 2013  dicembre 04 Mercoledì calendario

CANDIDA MORVILLO: PERCHE’ FACCIO MISSION, IL PIU’ CRITICATO PROGRAMMA TV

Non conosco né Al Bano né Emanuele Filiberto. Perciò, potendo scegliere, non ci andrei in vacanza. Ma con loro ho fatto Mission, il programma peggio recensito della storia della Tv, anche se nessuno lo ha ancora visto. Quando ho accettato di partecipare, non sapevo cosa fosse esattamente, come non lo sapevano i 98 mila che hanno firmato una petizione per fermarne la messa in onda di stasera su Raiuno. Semplicemente, mi è stato chiesto se volevo andare due settimane a lavorare in un campo profughi con l’Unhcr e mi è venuto da rispondere sì. In certi casi, le risposte d’istinto sono le migliori. Se mi fossi fatta condizionare dalle polemiche che già infuriavano in quei giorni di fine agosto, avrei perso un’esperienza umana e professionale unica. Lavorare assieme agli operatori umanitari dell’Alto Commissariato delle Nazione Unite per i Rifugiati e della Ong Intersos, non è una gita disponibile su un catalogo di viaggi. Poi, leggendo la valanga di critiche preventive, tipo che si trattava di spettacolarizzazione del dolore, qualche dubbio mi è venuto. Gli amici tentavano di farmi cambiare idea, mi dicevano che l’obiettivo era certamente mandare me, Al Bano, le sue figlie, Francesco Pannofino, Filiberto, Paola Barale, Lorena Bianchetti, Cesare Bocci ai lavori forzati tra gli ultimi del mondo: spettacolo di braccia rubate all’agricoltura da una parte e pietismo di disperati dall’altra. Qualcuno mi ha chiesto se, oltre ai Vip, anche i rifugiati sarebbero andati in nomination.
Al primo appuntamento con gli autori e il regista, ero ormai sulla difensiva. Ho fatto mille domande. La telecamera avrebbe indugiato sul dolore dei rifugiati? E sulla fatica di noi inviati? Si aspettavano che ci sarebbero state liti? Ci avrebbero ripreso 24 ore su 24? Cercavano le lacrime? Sono uscita da quell’incontro rassicurata, certa che l’obiettivo dei produttori Rai e Dinamo era raccontare la vita di rifugiati e sfollati e delle persone che hanno scelto di aiutarli. Sono uscita da quella stanza certa che Mission non è un reality, che non c’è una gara, non c’è un vincitore. Non è l’Isola dei famosi e non c’è una giuria che alza la paletta e vota chi ha costruito meglio la tenda.
Tuttavia, ero ancora titubante. Da giornalista, mi sono detta, potevo sempre raccontare rifugiati e sfollati con un reportage. E la loro è una tragedia che merita di essere raccontata: 46 milioni di persone nel mondo sono state costrette a lasciare le loro case, e spesso il loro Paese, hanno perso tutto e vivono solo di aiuti umanitari. Sono vittime di guerre, carestie, ma anche di terremoti, alluvioni, calamità naturali. A tutti noi potrebbe capitare di trovarci nella loro situazione.
Sono finita a interrogarmi sul motivo per cui da 21 anni faccio questo mestiere. E il motivo è uno solo: voglio raccontare nel modo più efficace possibile quelle realtà che credo siano interessanti – o dovrebbero essere interessanti – per gli altri. Il punto è: un articolo o un documentario possono raggiungere l’intero pubblico dei pacchi di Insinna? Non credo. I documentari sui rifugiati vanno forse su Raitre a mezzanotte perché in prima serata, su Raiuno, farebbero un’audience con lo zero davanti. Non mi piace buona parte della Tv generalista, però se per far conoscere il dramma dei rifugiati al grande pubblico devi mandare Al Bano in Giordania ed Emanuele Filiberto nella Repubblica Democratica del Congo, questo è un problema del Paese e non della Rai.
Mi sono detta che, se per raccontare qualcosa che vale la pena raccontare dovevo mettermi in gioco in una maniera nuova, non mi sarei tirata indietro. Assieme a Francesco Pannofino, immenso protagonista della serie tv Boris, sono stata in Mali, nella regione di Mopti, al confine col Nord del Paese stravolto da una rivolta indipendentista cominciata nel 2012. Ho incontrato centinaia di sfollati fuggiti da Timbuctù, Gao, Kidal e dai villaggi vicini, luoghi spesso rasi al suolo e dati alle fiamme. Luoghi dove è stata imposta la sharia, dove uomini sono stati decapitati e donne stuprate, a volte davanti a mariti e figli.
Ho conosciuto donne che hanno visto i loro uomini e i loro bambini morire nella fuga in canoa lungo il fiume Niger, colpiti dai cecchini appostati sugli argini. Donne che mi dicevano “vogliamo la pace” e, per la prima volta, ho capito cos’è la pace, come quando di colpo ritrovi il senso primigenio di una parola abusata.
Ho costruito una tenda per Fatima, una donna rimasta senza marito ma con tre bambini suoi e un altro, orfano della figlia maggiore, morta di parto, stremata dalla fuga sul Niger. La gratitudine che ho visto nei suoi occhi non è la stessa che avrei visto per un’intervista, eppure, sono felice che nessuno – nel momento topico della consegna della tenda – si sia nemmeno sognato di filmarla. Sarebbe stata una spettacolarizzazione inutile. Però, quando Fatima mi ha abbracciato, un abbraccio che stasera non vedrete in Tv, ho capito che il lavoro degli operatori umanitari non è solo portare cibo e costruire alloggi di fortuna, ma far sentire a queste persone che non sono sole.
Poi, nel resto del mondo, l’Unhcr manda in giro Angelina Jolie e nessuno ci trova da ridire. E, vabbè, ognuno ha la celebrities che si merita, ma questo è un altro discorso