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 2013  dicembre 04 Mercoledì calendario

SCHEDONE SU BLOCCO BRENNERO, CIBO MADE IN ITALY E TERRA DEI FUOCHI


LA PROTESTA DEI TIR AL BRENNERO
Gli agricoltori bloccano la frontiera del Brennero tra Italia e Austria in difesa del made in Italy, lanciando la «Battaglia di Natale: scegli l’Italia» promossa da Coldiretti per difendere il settore dalle importazioni di bassa qualità spacciate come italiane. Importazioni che dal 2007 hanno causato la chiusura di 140 mila aziende italiane (vedi sotto).
E così nell’area di parcheggio “Brennero”, primo chilometro dell’autostrada in direzione sud, verso l’Italia, ci sono trattori e decine di pullman che nella notte hanno portato al valico gli imprenditori agricoli provenienti da tutta Italia. Gli allevatori si sono schierati attorno al tracciato stradale e hanno iniziato a fermare i camion per sapere quale merce arriva e dove va a finire, mentre sollevavano cartelli, indirizzati agli automobilisti in transito, per chiedere di sostenere la proposta di etichettatura obbligatoria per tutti i prodotti alimentari.
Alla manifestazione si unito anche il ministro delle politiche agricole Nunzia Di Girolamo, che ha invocato uno stop alla concorrenza sleale: «Il made in Italy è la grande occasione per il nostro Paese per uscire dalla crisi. Occorre insistere specialmente per quanto riguarda la tracciabilità in modo tale da consentire agli agricoltori italiani di essere protetti. E anche i consumatori finali devono sapere da dove arrivano i prodotti e che cosa mangiano. Sono qui per esprimere la mia solidarietà per il grande coraggio di questi agricoltori, qui fa molto freddo».
Alcuni tir sono stati aperti davanti ai carabinieri dei Nas e agli agricoltori Coldiretti. Nei camion frigo sono stati trovati latte polacco, cosce di prosciutto tedeschi e olandesi, calgliate tedesche: tutte materie prime che secondo i manifestanti sono destinate alla filiera «made in Italy». In altri tir c’erano patate tedesche dirette a Palermo, fiori partiti dal Kenya, transitati in Olanda e destinati a Treviso.
Tra gli slogan e gli striscioni dei manifestanti: «Il falso prosciutto italiano ha fatto perdere il 10% dei posti di lavoro», «Una mozzarella su 4 è senza late», «Fuori i nomi di chi fa i formaggi con caseine e cagliate», «Dove vanno a finire i miliardi di litri di latte che passano dal Brennero?», «615 mila maiali di meno in Italia grazie alle importazioni alla diossina dalla Germania», «Il falso made in Italy uccide l’Italia».

IL PROBLEMA DELLA TRACCIABILITA’
Il grosso problema segnalato dalla Coldiretti è la mancanza di una normativa sulla tracciabilità dei prodotti alimentari. In tanti casi gli ingredienti alimentari destinati alla filiera made in Italy provengono in realtà da altri Paesi, ma il consumatore finale non lo può sapere perché manca un’etichettatura che lo segnali. Spiega il presidente del Consiglio regionale del Veneto Clodovaldo Ruffato: «Il Veneto si è fatto promotore di una iniziativa unitaria dei Consigli regionali d’Italia che nell’assemblea dei presidenti del prossimo 13 dicembre approveranno a Roma una carta di impegni rivolta ai ministri delle politiche agricole e della salute e alla Presidenza del Consiglio. Le assemblee legislative delle Regioni italiane chiedono al governo di accelerare l’introduzione dell’obbligo di etichettatura e di indicazione del paese d’origine» . La Coldiretti mette in guardia anche sulla salute: «Dalla Germania arrivano cosce di maiale imbottite con antibiotici in quantità molto superiore a quella prevista dalla normativa italiana, che in Europa è quella più rigida».

I DATI COLDIRETTI SU AZIENDE ALIMENTARI
Sempre oggi la Coldiretti ha reso nota una propria ricerca basata su dati Unioncamere relativi ai primi nove mesi 2013 rispetto all’inizio della crisi nel 2007. Secondo lo studio con la crisi sono state chiuse in Italia 140 mila (136.351) stalle ed aziende anche a causa della concorrenza sleale dei prodotti di minor qualità importati dall’estero che vengono spacciati come Made in Italy. Solo nell’ultimo anno sono scomparse 32.500 tra stalle ed aziende agricole e persi 36 mila occupati nelle campagne. «Stiamo svendendo un patrimonio del nostro Paese sul quale costruire una ripresa economica sostenibile e duratura che fa bene all’economia all’ambiente e alla salute», afferma il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo. Oggi l’Italia, anche a causa delle importazioni di minor qualità - sottolinea la Coldiretti - produce appena il 70% dei prodotti alimentari che consuma ed importa il 40 % del latte e della carne, il 50% del grano tenero destinato al pane, il 40% del grano duro destinato alla pasta, il 20 % del mais e l’80% della soia. Dall’inizio della crisi ad oggi le importazioni di prodotti agroalimentari dall’estero sono aumentate in valore del 22 %, in questo caso secondo un’analisi di Coldiretti relativa al commercio estero nei primi otto mesi del 2013. Gli arrivi di carne di maiale sono cresciuti del 16 %, mentre le importazioni di cereali, «pronti a diventare pasta e riso spacciati per italiani», hanno segnato un boom (+45 %), con un +24% per il grano e un +49 % per il riso. Aumenta anche l’import di latte, +26 per cento, «anch’esso destinato a diventare magicamente made in Italy». Netta pure la crescita delle importazioni di frutta e verdura, +33 %, con il pomodoro fresco che sovrasta tutti (+59 %).

QUALI CIBI IMPORTA L’ITALIA – DATI COOP
(DA ILFATTOALIMENTARE.IT 3/12/2013)
L’Italia nel settore alimentare non è autosufficiente e deve importare grandi quantità di materie prime dall’estero. Una situazione ben conosciuta dagli addetti ai lavori, ma meno nota al grande pubblico, che vorrebbe sempre comprare cibo “made in Italy”. Questa mancanza si traduce nella necessità di importare ingredienti da trasformare in prodotti finiti destinati sia al consumo interno sia all’esportazione. Un rapporto firmato da Coop e pubblicato sulla rivista “Consumatori” cerca di fare chiarezza.
Il dossier sfata il mito del prodotto preparato con materie prime al 100% italiane. Il nostro Paese non riesce a produrre tutte le risorse di cui ha bisogno sia a causa di politiche restrittive dell’Unione Europea, sia per la diminuzione dei terreni destinati all’agricoltura. Secondo dati raccolti da Coop, dal 1970 a oggi gli ettari di superficie coltivabile sono scesi da 18 a 13 milioni, mentre la popolazione è cresciuta del 10%. L’importazione è indispensabile per produrre molti altri alimenti tipici del made in Italy.
L’esempio della pasta è istruttivo: il grano duro italiano copre solo il 65 % del fabbisogno, occorre importare frumento da Paesi come Canada, Stati Uniti, Sudamerica e Ucraina. Anche per il grano tenero vale la stessa cosa poiché il prodotto interno copre solo il 38% di ciò che richiede il settore, con importazioni da Canada, Ucraina, ma anche Australia, Messico e Turchia. Non cambia la situazione per altre categorie merceologiche: le carni bovine italiane rappresentano il 76% dei consumi e per il latte si scende addirittura al 44%, anche per lo zucchero e il pesce fresco dobbiamo rivolgerci ad altri mercati poiché riusciamo a coprire solo il 24% e il 40% del consumo interno. Lo zucchero viene soprattutto dal Brasile, mentre il pesce da Paesi Bassi, Thailandia, Spagna, Grecia e Francia, oltre a Danimarca ed Ecuador.
Anche la maggior parte dei legumi non sono italiani, a causa di drastiche riduzioni delle coltivazioni a partire dagli anni ’50. Adesso le importazioni provengono principalmente da Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, ma anche da Medio Oriente e Cina. Quest’ultimo Paese è diventato il primo fornitore italiano a seguito della siccità che ha colpito l’Argentina.
Dobbiamo ricordare poi l’annosa questione del pomodoro. Premesso che tutto il pomodoro venduto sugli scaffali è italiano, dalla Cina importiamo triplo concentrato di pomodoro, che viene lavorato e esportato in altri Paesi. Siamo invece autosufficienti per quanto riguarda riso, vino, frutta fresca, pomodoro, uova e pollo. Solo in questi casi abbiamo la quasi totale certezza di comprare un prodotto made in Italy al 100%.
La situazione per il cibo trasformato è opposta: produciamo il 220% della pasta rispetto al fabbisogno interno, che viene esportata, 4 volte la quantità di spumante consumato, mentre per i formaggi questa percentuale è pari al 134% ( vedi tabella Coop sotto). L’importazione della materia prima diventa nel caso della pasta indispensabile per poter produrre quantità in grado di soddisfare le richieste del mercato.
Alcuni esempi rischiano anche di sorprendere: alcuni prodotti correlati al territorio come quelli IGP (Indicazione Geografica Protetta), sono in realtà il risultato eccellente della lavorazione di materie prime non italiane. La bresaola proveniente dalla Valtellina viene preparata con carne argentina o del sud america. La Valtellina offre un ambiente ottimo per la stagionatura e la lavorazione del prodotto, ma non dispone di allevamenti in grado di fornire l’ingrediente di base (17 mila tonnellate l’anno di cui 11 mila di prodotti Igp).
Alla luce di questi dati la ricerca insistente dell’alimento fatto solo con materie prime italiane ha poco senso, tranne per alcune categorie merceologiche dove siamo autosufficienti. Per questo motivo Coop ha deciso di fare conoscere ai clienti l’origine degli ingredienti dei suoi prodotti attraverso la rete. Il sistema, che abbiamo già descritto in un articolo, è molto semplice: basta collegarsi al sito della Coop e digitare il nome del prodotto o utilizzare il codice a barre di ciò che abbiamo acquistato. Se proviamo a scrivere la parola “pasta” troveremo decine di voci, dalla pasta di semola a quella all’uovo. Alcune sono fatte con materie prime italiane al 100%, altre invece sono ottenute con grano importato da Australia, Canada, Francia e Stati Uniti.
La provenienza di materie prime dall’estero non è sinonimo necessario di scarsa qualità: la sicurezza dipende dai controlli e dal rispetto delle regole. È più importante poter potenziare gli strumenti che garantiscono la qualità di un prodotto o di un ingrediente, a prescindere dalla sua provenienza geografica, piuttosto che ricercare l’italianità a tutti i costi, anche quando non è possibile.

LE TRUFFE DEL MADE IN ITALY
(DA ILSOLE24ORE.IT 4/12/2013)
Vale 60 miliardi il business dei furbetti del gusto che sfruttano l’immagine dei prodotti alimentari Made in Italy costruita nel tempo dagli agricoltori italiani per vendere nel mondo tarocchi che nulla hanno a che fare con la realtà produttiva nazionale. È quanto emerge da uno studio presentato dalla Coldiretti che a più riprese ha denunciato le opere più improbabili realizzate dai pirati del del gusto, dal Barbera bianco prodotto in Romania al Gorgonzola grattugiato Made in Usa, dal Barolo canadese al Nebbiolo svedese entrambi in polvere.
Alla perdita di opportunità economiche ed occupazionali si somma - sottolinea la Coldiretti - il danno provocato all’immagine dei prodotti nostrani soprattutto nei mercati emergenti, dove spesso il falso è più diffuso del vero e condiziona quindi negativamente le aspettative dei consumatori. In testa alla classifica dei prodotti più clonati ci sono i formaggi partire dal Parmigiano Reggiano e dal Grana Padano che ad esempio negli Stati Uniti in quasi nove casi su dieci sono sostituiti dal Parmesan prodotto in Wisconsin o in California. Ma anche il Provolone, il Gorgonzola, il Pecorino Romano, l’Asiago o la Fontina. Poi ci sono i nostri salumi più prestigiosi: dal Parma al San Daniele, che spesso vengono "clonati", ma anche gli extravergine di oliva e le conserve come il pomodoro san Marzano che viene prodotto in California e venduto in tutti gli Stati Uniti.
E recentemente sul mercato sono arrivati anche i wine kit che con polveri miracolose promettono in pochi giorni di ottenere a casa le etichette più prestigiose come il Barolo o il Nebbiolo ma anche, Lambrusco, Chianti o Montepulciano. A differenza di quanto accade per la moda dove a copiare sono soprattutto i paesi poveri per il cibo Made in Italy le imitazioni proliferano specialmente in quelli ricchi, con gli Stati Uniti e l’Australia in testa, dove – sottolinea la Coldiretti - ci sono consumatori che hanno disponibilità economiche più elevate e sono affascinati dal cibo del nostro Paese.

IL MADE IN ITALY IN MANO AGLI STRANIERI
(DA FABIO SAVELLI E ARCANGELO ROCIOLA, CORRIERE DELLA SERA 28/7/2013)
Nessuna linea Maginot da erigere a protezione delle nostre aziende. Tanto meno la volontà di rilanciare il dibattito sulla necessità dell’intervento statale misto a un campanilismo vecchia maniera non più adeguato ai tempi del commercio globale. Solo una ricognizione sul made in Italy “venduto” agli stranieri nei cinque anni della Grande Crisi tra luoghi comuni da sfatare, insicurezze da dissipare, persino qualche buona notizia nel Belpaese preda degli appetiti degli investitori esteri a caccia di marchi riconosciuti. Dal 2009 ad oggi sono state acquisite da imprenditori/fondi d’investimento/fondi sovrani 363 aziende italiane per un controvalore di circa 47 miliardi di euro. Lo studio realizzato dalla società di revisione Kmpg per il Corriere della Sera testimonia come il picco si è avuto nel 2011 quando sono state 109 le operazioni sul mercato italiano, mentre nei primi sei mesi del 2013 si è in linea con gli anni precedenti (42 acquisizioni per un ammontare di 4,1 miliardi di euro) nonostante «la dura recessione economica». Da Bulgari acquisita dalla holding del lusso Lvmh per 4,3 miliardi di euro (2011) alla Parmalat finita nelle mani francesi di Lactalis per 3,7 miliardi (stesso anno). Dalla più recente Loro Piana, rilevata all’80% dallo stesso gruppo emanazione dell’imprenditore Bernard Arnault (2013) alla Coin controllata dal fondo inglese di private equity Bc Partners a fronte di una spesa di 906 milioni di euro (sempre nel 2011). E ancora: la Ducati comprata dalla tedesca Audi del gruppo Volkswagen per 747 milioni (2012) e il gruppo Valentino ora di proprietà di Mayhoola for Investment, società riconducibile allo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani, emiro del Qatar. L’elenco potrebbe proseguire con Moncler, Ferré, Bertolli, Orzo Bimbo, Cesare Fiorucci e Ferretti yacht (ora cinese), ma è da smentire lo stereotipo che le acquisizioni da oltrefrontiera siano accelerate da sette trimestri consecutivi di Pil italiano negativo. In realtà gli investimenti diretti esteri seguono una dinamica speculare alla situazione economica del sistema-Paese di destinazione. Nel 2007 – l’ultimo anno di crescita sostenuta – le operazioni sul mercato italiano avevano toccato la cifra record di 28,4 miliardi di euro. Innocenzo Cipolletta, neo-presidente del Fondo Italiano d’Investimento (la società di gestione del risparmio compartecipata dal ministero del Tesoro, da Cdp, Abi, Confindustria e alcune banche-sponsor) è convinto che guardare gli investitori esteri con diffidenza sia un clamoroso errore di valutazione: «Ogni acquisizione è una prospettiva di sviluppo per l’impresa in sé, perché apre nuovi mercati e suggerisce nuove piattaforme distributive per i prodotti del made in Italy. Semmai dobbiamo preoccuparci del perché poche aziende italiane comprino oltre-frontiera, ma qui l’accento è da porre sul basso accesso ai capitali di rischio delle nostre imprese, poco interessate a quotarsi in Borsa per il terrore di perdere il controllo della società». Analisi condivisa da Giuseppe Latorre, partner Kpmg corporate finance. Punta il dito contro «la nostra ossessione del controllo» e invita a «non dispiacersi per l’eventuale perdita di sovranità». Colpisce però come la politica di acquisizione di aziende italiane porti persino a un aumento del numero di addetti, al netto di un eventuale accentramento delle funzioni di staff che invece fuggono altrove. Secondo uno studio del Politecnico di Milano il numero di lavoratori italiani che lavorano per conto di aziende a ragione sociale estera è di oltre 886mila (dato 2012), in crescita di oltre 30mila unità rispetto al 2005. Spiega Stefania Trenti, economista dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, come il nuovo fronte riguarda i servizi professionali: «L’apertura di filiali italiane da parte di grandi studi legali internazionali crea posti di lavoro ad alto valore aggiunto».

(DA LASTAMPA.IT 4/7/2013)
Dall’Orzo Bimbo agli spumanti Gancia, dai salumi Fiorucci alla Parmalat, dalla Star al leader italiano dei pomodori pelati finito alla giapponese Mitsubishi. E nel 2013 è stato ceduto anche il 25% del riso Scotti, mentre, per la prima volta la produzione di vino Chianti nel cuore della Docg del Gallo Nero è divenuta di proprietà di un imprenditore cinese. Sono molti e di grosso prestigio i marchi storici dell’agroalimentare italiano finiti silenziosamente in mani straniere dall’inizio della crisi. Il valore delle aziende cedute è stimato in circa 10 miliardi di euro. A sottolinearlo è il presidente della Coldiretti Sergio Marini sulla base di uno studio presentato all’assemblea nazionale a Roma dove uno spazio è dedicato allo «scaffale del Made in Italy che non c’è più», evidenziando come nel mondo ci sia «fame di Italia con una drammatica escalation nella perdita del patrimonio agroalimentare nazionale».
Se la multinazionale del lusso LVMH ha acquisito una partecipazione di maggioranza nel capitale sociale della Pasticceria Confetteria Cova proprietaria della società Cova Montenapoleone Srl, che gestisce la nota pasticceria milanese, l’ultimo colpo nelle campagne toscane è stato messo a segno da un imprenditore cinese della farmaceutica di Hong Kong, che ha acquistato per la prima volta un’azienda vitivinicola agricola nel Chianti, terra simbolo della Toscana per la produzione di vino: l’azienda agricola Casanova - La Ripintura, a Greve in Chianti, nel cuore della Docg del Gallo Nero.
Nel 2013 – fa sapere la Coldiretti - si è verificato il passaggio di mano del 25% della proprieta’ del riso Scotti ceduto dalla famiglia pavese al colosso industriale spagnolo Ebro Foods. Nel 2011 la società Gancia, casa storica per la produzione di spumante, è divenuta di proprietà per il 70 % dell’oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vokda Russki Standard; la francese Lactalis è stata, invece protagonista - sottolinea la Coldiretti - dell’operazione che ha portato la Parmalat a finire sotto controllo transalpino; il 49 % di Eridania Italia Spa è stato acquisito dalla francese Cristalalco Sas e la Fiorucci salumi è passata alla spagnola Campofrio Food Group, la quale ha ora in corso una ristrutturazione degli impianti di lavorazione a Pomezia che sta mettendo a rischio numerosi posti di lavoro. Nel 2010 il 27 % del gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni Industria Casearia S.p.A fondata nel 1823 che vende tra l’altro Parmigiano Reggiano e Grana Padano è stato acquisito dalla francese Bongrain Europe Sas e la Boschetti Alimentare Spa, che produce confetture dal 1981, è diventata di proprietà della francese Financie’re Lubersac che ne detiene il 95 %. L’anno precedente, nel 2009, è iniziata la cessione di quote della Del Verde industrie alimentari spa che è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl, la quale fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata. Nel 2008 la Bertolli era stata venduta all’Unilever per poi essere acquisita dal gruppo spagnolo SOS, è iniziata la cessione di Rigamonti salumificio spa, divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International, mentre la Orzo Bimbo è stata acquisita dalla francese Nutrition&Sante’ S.A. del gruppo Novartis. Lo stesso anno è stata ceduta anche Italpizza, l’azienda modenese che produce pizza e snack surgelati, all’inglese Bakkavor acquisitions limited.
Più di otto italiani su dieci (L’82 per cento) cercano di riempire il carrello della spesa con prodotti Made in Italy al 100 per cento; di questi il 53 per cento li preferisce anche se deve pagare qualche cosa di più. È quanto emerge da un sondaggio on line condotto sul sito della Coldiretti.

IL DECRETO SULLA TERRA DEI FUOCHI
Bruciare i rifiuti diventerà un reato penale. Fino a oggi si pagavano soltanto contravvenzioni. Con il decreto approvato martedì 3 dicembre dal governo invece si rischia il carcere, fino a sei anni, considerando le aggravanti per azioni compiute da attività organizzate e all’interno di territori dove è stata dichiarata l’emergenza rifiuti. Come succede in Campania. È infatti sull’emergenza campana che è stato varato martedì il decreto denominato proprio «Terra dei fuochi», così come sono state battezzate quelle zone concentrate fra Napoli e Caserta devastate dai rifiuti (spesso tossici) e da, appunto, i roghi appiccati a questi rifiuti.
«Questo provvedimento è una risposta dello Stato senza precedenti», ha commentato il premier Enrico Letta illustrando il decreto che è stato presentato da cinque ministri del suo governo, a cominciare dal vicepremier e ministro dell’Interno Angelino Alfano, e poi dal ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, da quelli delle Politiche agricole Nunzia De Girolamo, dello Sviluppo economico Flavio Zanonato, della Coesione territoriale Carlo Trigilia. C’era anche il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, al Consiglio dei ministri di martedì, lui che questo decreto lo ha fortemente voluto e che alla fine lo finanzierà anche, visto che almeno all’inizio le risorse arrivano proprio dalla sua Regione.
Il reato dei roghi di rifiuti è soltanto un tassello di un decreto che, fatto di nove articoli. è norma da subito e prevede la possibilità dell’uso dei militari in situazioni di emergenza. C’è anche l’estensione dell’obbligo di informazione sui terreni contaminati, quello già previsto dall’articolo 129 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale. Ovvero, in pratica: i magistrati avranno l’obbligo di informare le istituzioni centrali e locali se durante un’inchiesta verranno a sapere di un interramento di veleni, o di sversamento illegale, o altri episodi simili.
Nel decreto sono previste anche la classificazione dei suoli, le risorse per le bonifiche, l’accelerazione e la semplificazione degli interventi necessari.
La De Girolamo assicura: «In tempi rapidi effettueremo il monitoraggio, l’indagine e la perimetrazione delle aree contaminate. Controlleremo campo per campo, perché lo Stato c’è. L’obiettivo è quello di arrivare a definire con esattezza quali sono le terre inquinate e quali no». Caldoro, in un video sul suo blog, invita invece i cittadini a partecipare alla fase della conversione del decreto in legge: «Non è un decreto che fa il palazzo, non alcuni ministri, ma deve essere un’azione trasparente nella quale tutti devono esprimere la loro opinione».

IL DECRETO IN QUATTRO PUNTI
• Pene previste e aggravanti: Carcere da 2 a 5 anni per chi brucia rifiuti abbandonati o lasciati in aree non autorizzate e da 3 a 6 anni se sono rifiuti pericolosi. La pena è aumentata di un terzo con l’aggravante dell’attività di un’impresa e sale ancora se i fatti avvengono in una zona su cui è dichiarato lo stato d’emergenza rifiuti.
• Radar e droni sulle aree inquinate: L’articolo 3 del decreto dispone gli «interventi urgenti per garantire la sicurezza agroalimentare in Campania»: si dovrà procedere ad una mappatura delle aree contaminate, anche mediante l’impiego di strumenti di telerilevamento (come i droni) per stabilire in modo inequivocabile quali sono i suoli inquinati e quali quelli salubri. A guidare la mappatura saranno i ricercatori dell’Ispra, dell’Istituto superiore di sanità e dell’Agenzia regionale per l’ambiente. Le autorità sono chiamate poi a definire l’elenco dei terreni che non potranno più essere destinati a produzioni agroalimentari. Una norma prevede la possibilità di bloccare la coltivazione di frutta e ortaggi anche contro la volontà degli agricoltori qualora venga dimostrato che esistono reali pericoli per la popolazione.
• I finanziamenti: Nel decreto del governo non c’è traccia dei fondi per le bonifiche. L’articolo 4, però, stabilisce che a tali oneri «si provvede anche mediante l’utilizzo del programma regionale per la Campania 2007-2013, del Piano di azione e coesione, nonché mediante misure da adottare nella programmazione dei fondi europei e nazionali 2014-2020». Tale accordo è stato raggiunto nel corso del faccia a faccia tra il premier Letta e il governatore Caldoro: si procederà alla riprogrammazione dei fondi 2014-2020 per ottenere uno stanziamento aggiuntivo di 600 milioni. In totale gli stanziamenti complessivi raggiungeranno quota 1,2 miliardi.
• Contratti ad hoc, sgravi e incentivi: Per la Terra dei fuochi il governo Letta ha previsto la stipula di «contratti istituzionali di sviluppo» ad hoc. L’obiettivo è far ripartire l’economia. Saranno possibili forme di sgravi e incentivi oppure bandi con lo stanziamento di risorse per le aziende che operino nei luoghi martoriati da roghi. Di questi aspetti si occuperà un comitato interministeriale. Significativo anche l’articolo 5: nonostante l’emergenza rifiuti sia finita nel 2010, si stanno ancora facendo i conti dei debiti accumulati dal 1994; per questo il Consiglio dei ministri ha deciso di concedere una proroga di due anni all’Unità tecnica che ha il compito di completare i calcoli dei soldi spesi.

CHE COS’È LA TERRA DEI FUOCHI
La “Terra dei fuochi” è una vasta area tra le province di Napoli e Caserta dove la criminalità organizzata gestisce e smaltisce illegalmente rifiuti speciali provenienti da tutta Italia. La definizione “Terra dei fuochi” deriva da una frase utilizzata da Roberto Saviano nel libro Gomorra, che a sua volta riprende i Rapporti Ecomafia pubblicati da Legambiente. Da molto tempo la questione viene denunciata dai cittadini dei comuni colpiti e da molte associazioni, anche con numerosi appelli, esposti e manifestazioni.
Più in particolare la Terra dei fuochi riguarda i comuni di Scampia, Ponticelli, Giugliano, Qualiano, Villaricca, Mugnano, Melito, Arzano, Casandrino, Casoria, Caivano, Grumo Nevano, Acerra, Nola, Marigliano, Pomigliano; dal lato di Caserta ci sono i comuni di Parete, Casapesenna, Villa Literno, Santa Maria Capua Vetere, Casal di Principe, Aversa, Lusciano, Marcianise, Teverola, Trentola, Frignano, Casaluce. Nel tempo il fenomeno si è esteso a tutta la Campania, giungendo anche nella provincia di Salerno.
In questi posti esistono molte discariche abusive, in piena campagna o lungo le strade: quando queste si saturano, per liberare spazio per i rifiuti successivi, vengono appiccati degli incendi. La maggior parte dei rifiuti che vengono “smaltiti” in queste zone sono rifiuti speciali. I rifiuti speciali sono definiti nell’articolo 7 del Decreto Legislativo numero 22 del febbraio 1997: sono una categoria speciale di rifiuti che si differenzia nettamente dai rifiuti urbani, quelli domestici o assimilabili a quelli domestici, quelli per esempio che derivano dalla pulizia delle strade o quelli provenienti da aree verdi. Rientrano tra i rifiuti speciali quelli da attività agricole e agro-industriali, quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, da lavorazioni industriali e artigianali, da attività commerciali o di servizio, o ancora quelli derivanti da macchinari, combustibili, veicoli a motore.
Sono i rifiuti più pericolosi e inquinanti, per capirsi, specie se il loro smaltimento avviene con modalità così rudimentali. Lo smaltimento dei rifiuti speciali dovrebbe seguire una modalità di trattamento e stoccaggio particolare, proprio per contenere i pericoli ambientali derivanti dalla loro gestione. Lo smaltimento è poi differente a seconda della tipologia di rifiuto: il percorso di un solvente di laboratorio è diverso da quello di un pannello di amianto. I rifiuti speciali sono la parte più consistente dei rifiuti – circa l’80 per cento dei rifiuti prodotti ogni anno in Italia – e anche i più costosi da smaltire: fino a 600 euro per tonnellata, per i più pericolosi.
Oltre al danno ambientale derivante dallo smaltimento illegale, c’è anche quello all’agricoltura – celebre il caso delle mozzarelle di bufala provenienti dalle zone a rischio – e quello sanitario. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) i continui smaltimenti illegali di rifiuti, con dispersione di sostanze inquinanti nel suolo e nell’aria, e l’inquinamento di falde idriche utilizzate per l’irrigazione di terreni coltivati, sono in stretta correlazione con l’incremento di diverse patologie tumorali. I casi maggiori si registrano, infatti, proprio negli otto comuni con il maggior numero di discariche di rifiuti: Acerra, Aversa, Bacoli, Caivano, Castelvolturno, Giugliano, Marcianise e Villaricca.

I DATI SULLA TERRA DEI FUOCHI
Dal 2001 ad oggi sono state 33 le inchieste per attività organizzata di traffico illecito di rifiuti condotte dalle procure attive nelle due province di Napoli e Caserta. I magistrati hanno emesso 311 ordinanze di custodia cautelare, con 448 persone denunciate e 116 aziende coinvolte. L’Arpac, l’Agenzia per l’ambiente della Regione Campania, ha individuato 2 mila siti inquinati.
Dal primo gennaio 2012 al 31 agosto 2013, secondo i dati raccolti dai Vigili del fuoco su incarico del viceprefetto Donato Cafagna (che dal novembre del 2012 segue per conto del ministero dell’Interno l’attività di monitoraggio e contrasto dei traffici e degli smaltimenti illegali di rifiuti nella “Terra dei fuochi”), i roghi di rifiuti, materiali plastici, scarti di lavorazione del pellame, stracci sono stati ben 6.034, di cui 3.049 in provincia di Napoli e 2.085 in quella di Caserta.

I CLAN E LA TERRA DEI FUOCHI
La camorra ha iniziato a occuparsi di rifiuti fin dagli anni Ottanta, prima di quelli urbani, poi di quelli speciali e pericolosi, più redditizi. Il fenomeno è diventato più conosciuto grazie alle prime dichiarazioni del boss Nunzio Perrella ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli: Perrella sottolineò l’enorme interesse finanziario della criminalità organizzata per questo settore (è sua la celebre frase “la munnezza è oro”). Dalla sua testimonianza nascerà l’inchiesta Adelphi, conclusa la quale gli inquirenti scrissero che in cambio di tangenti e grazie al controllo esercitato sul territorio i clan riuscirono a scaricare illegalmente in Campania «rilevantissime quantità di rifiuti», nell’ordine di centinaia di migliaia di tonnellate.
Nel tempo le figure delle persone coinvolte nei traffici si è trasformata passando da quella dei “camorristi imprenditori” a quella degli “imprenditori camorristi”. La definizione è del magistrato Maria Cristina Ribera, che nel 2011 ha fatto mettere a verbale in Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti questa dichiarazione:
«Mentre prima soggetti notoriamente come camorristi avevano imprese che gestivano i rifiuti, ora alcuni imprenditori hanno un controllo quasi monopolistico di alcuni ambiti di questo settore che però sono il braccio economico del clan».
Fino a oggi sono una ventina gli ex boss che hanno operato nella gestione dei rifiuti e che hanno raccontato agli inquirenti come funziona il sistema. Tra loro c’è il pentito Carmine Schiavone, che già nel 1995 ai magistrati aveva evidenziato come la Campania fosse destinata a diventare una discarica a cielo aperto, soprattutto di materiali tossici tra cui piombo, scorie nucleari e materiale acido. Le sue dichiarazioni sono tornate di attualità dopo un’intervista che ha rilasciato a Sky in cui spiega nel dettaglio i luoghi dei seppellimenti dei rifiuti provenienti da tutta Italia e anche dall’estero e il sistema di “smaltimento”:
«Il vero business era quello dei carichi che dal Nord Europa arrivavano al Sud. Rifiuti chimici, ospedalieri, farmaceutici e fanghi termonucleari. Scaricati e interrati dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. (…) I rifiuti erano scaricati da camion e gettati nei campi e nelle cave di sabbia. Negli anni le cassette di piombo si saranno aperte, ecco perché la gente sta morendo di cancro. Stanno morendo 5 milioni di persone».

L’ONCOLOGO E LA TERRA DEI FUOCHI
(DA ANTONIO SALVATI, LA STAMPA 4/3/2013)
«La Terra dei fuochi è l’altra faccia della tragedia di Prato, un problema non solo nazionale ma mondiale. Per questo auspico che la data del 3 dicembre diventi la giornata per la tutela della dignità del lavoro e di conseguenza dell’ambiente». L’oncologo Antonio Marfella è una delle voci storiche della protesta contro l’avvelenamento dei terreni in Campania e di sue dichiarazioni sono pieni i faldoni delle Procure e i resoconti stenografici del Parlamento. Eppure la sua chiave di lettura spiazza. «Perché il problema reale è il traffico illegale di rifiuti industriali. Ora conosciamo la vera emergenza e sappiamo che lo Stato ha preferito chiudere gli occhi piuttosto che affrontarla». Un dramma dai numeri impietosi: ad Acerra, uno dei Comuni della Terra dei fuochi, dal 2009 al 2012 le esenzioni da ticket per tumori maligni sono aumentate dell’81,2%. Nel solo triennio 2009-2011 i bambini con tumore nella provincia di Napoli sono stati 1.519, in quella di Caserta 342.
Il ragionamento di Marfella è logico: se una ditta produce in nero un manufatto in pelle, gli scarti dovranno per forza essere smaltiti illegalmente, quindi bruciati nelle campagne tra Caserta e Napoli. E se in provincia di Napoli si registra il più alto numero d’illegalità diffusa in ambito lavorativo allora il conto torna. «Il problema dei roghi tossici – spiega Marfella – non va confuso con la gestione dei rifiuti urbani». Ancora qualche numero: nel 2012 in Italia (dati Ispra) sono stati prodotti 138 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui 10 altamente tossici, contro i 29 milioni di rifiuti urbani. A questa cifra va aggiunta la quota in «nero», ossia i rifiuti speciali prodotti dall’economia sommersa. «Se questi scarti di lavorazione non saranno più bruciati nella Terra dei fuochi, – continua Marfella – alimenteranno un traffico mondiale. Ritorneranno forse in Cina per poi approdare ancora in Italia sotto forma di giocattoli fatti con plastica tossica».
E la soluzione? Marfella ha la sua: «Per spegnere la Terra dei fuochi occorre avere il coraggio di abbassare le tasse sulle imprese e consentire di far emergere quel sommerso che sversa rifiuti speciali dove capita». E le bonifiche? E l’Esercito? Per Marfella basta dividere i terreni inquinati da quelli non inquinati. Terreni (in Campania sono 800 ettari su 700mila) che potrebbero essere riconvertiti per produrre canapa o per creare spazi verdi. «Un giardino dei giusti, con alberi donati da tutti i Comuni della Campania – continua Marfella – per riabilitare anche all’estero l’immagine della nostra regione e dell’Italia tutta». Ma bisogna fare presto, perché il rischio è che la lentezza dell’azione di contenimento dell’avvelenamento del territorio si scontri con le nuove tecniche adottate della criminalità ambientale. Nelle fabbriche dove tutto è fuorilegge, gli scarti, ormai, non si bruciano più. Troppo rischioso. Meglio obbligare chi lavora lì a portare a casa la sua quantità di rifiuti speciali utilizzando, poi, il sacchetto di casa per farli scomparire.