Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 4/12/2013, 4 dicembre 2013
NOTTI DA CAMPIONE: VINCERE E (NON) VINCEREMO
Esce lo zero, vede il croupier portarsi via la sua opaca fiche da mille franchi svizzeri (poco più di ottocento euro) e sbotta: «Merda! Sono un uomo di merda!». Indossa una giacca logora, una inguardabile camicia con il doppio collo, è mal rasato e ha i capelli impomatati. Non oso guardargli le mani per verificare se ha una fede nuziale, e sta svuotando il conto corrente mentre sua moglie è in clinica a partorire (e conosco più d’uno che l’ha fatto). Lo ritroverò a perdere e imprecare altre tre volte in una lunga notte a Campione d’Italia.
Non avrei immaginato che per raccontare l’Italia sarei finito a Campione, capitale del non luogo, doppia frontiera nel giro di pochi metri: sei in Italia ma corre valuta svizzera, sei in Italia ma una buona metà dei presenti è straniera. Solo i croupier parlano francese e provano a essere cortesi. Gli altri sono incomprensibili e arruffati, perseguitati da un famigerato imperativo: vincere.
NEI CASINÒ DELLA MIA GIOVENTÙ andavo/andavamo per giocare: con Dostoevskij in Russia, con Ljuba Rizzoli a Montecarlo, con il mio amore dei vent’anni a Venezia (ma una volta siamo entrati, abbiamo fatto un pieno sul 7 e siamo usciti, almeno finché lei sognò una clessidra e disse: solo i giocatori sono invincibili).
Dopo, son cambiati i tempi e i verbi si sono adeguati. Ora provo/proviamo soltanto a vincere, quindi siamo un esercito sconfitto che batte in ritirata: ho attraversato la baia di Hong Kong diretto a Macao con orde di robot cinesi disattivati che andavano a spegnersi ai tavoli, in una notte a Las Vegas per vedere un terminale Tyson mi sono svegliato alle 4 e non sapendo che fare sono sceso in sala e al tavolo del Blackjack ho in effetti visto Tyson, poi sono approdato qui, a Campione. Ci vengo per uno di quei riti che celebrano l’amicizia maschile: una volta ogni due o tre mesi troviamo la sera giusta, partiamo da Milano, andiamo a cena da qualche stellato, poi veniamo al casinò. Nessuna meraviglia che «decadenza» sia diventata una parola chiave. Di solito restiamo ai tavoli poco: vincere e sparire prima che cambi il vento.
CHI VA AL CASINÒ ha due tipi di rapporto con la vittoria. C’è chi vuole vincere a modo suo, con i numeri che hanno fatto la sua storia, farsi scaldare il cuore dall’uscita di un 26 (la data di nascita), 16 (un anniversario). Una volta al Tropicana di Budapest ho visto una ragazza puntare dichiarando: «Due! Le mie tette!». Non sono uscite.
Poi ci sono quelli che vogliono vincere cavalcando il momento, pretendendo di capire la situazione. Guardano la colonnina dei precedenti, annotano, battezzano la fine di una serie di rossi («Dopo il sesto, tutto sul nero»). Le possibilità di successo, mi ha insegnato l’esperienza, sono più o meno le stesse. Sarà perché incombono le primarie del Pd (poveri diavoli), ma le due categorie mi ricordano quelli che vogliono (volevano) vincere duri e puri, stanno con Cuperlo, ma sognavano il nobile ermetismo di Fabrizio Barca, ultimo raggio di un glorioso passato da giocatori, e quelli che invece scelgono Renzi «perché cosi vinciamo», come se fosse davvero possibile prevedere che, sbiadendo il rosso, la sorte si inchini. Non è che state puntando lo zero assoluto?
Ci faccio due pieni di fila, sullo zero, ma con fiches che valgono come gettoni telefonici. «Avrebbe dovuto alzare la posta dopo il primo colpo», mi dice il croupier. «Qui le ripetizioni sono la regola». Prima, quando era uscito il 21, vicino del 2 su cui scommettevo («I miei occhi!»), aveva espresso un’altra teoria: «Questo è un gioco fondato sui pali, anziché sulle reti. Sta in piedi da secoli e la gente ci casca da secoli perché non vince ma ha l’impressione di poterlo fare giacché ogni volta lo sfiora, inevitabilmente. E allora ritenta, pensa che prima o poi vincerà».
ROBERTO VECCHIONI ha scritto una canzone che mi ha ossessionato. Si intitola Figlia, e la parte che mi insegue è quella in cui dice: «Vincere significa accettare e questo, lo dovessi mai fare, tu figlia non me lo perdonare». Avere voti alti in un liceo borghese, fare carriera, essere riconosciuto, vendere, vincere: tu questo non me lo perdonare.
Il casinò non era un’eccezione, ma lo è diventata: anche io come i cinesi senza sguardo, come la donna che da ore fa calcoli senza puntare mai, come «l’uomo di merda», vengo per vincere. E manco ci riesco. La serata gira storta. Non escono i numeri della mia storia e neppure quelli che mancano da un’eternità (chi si è fregato 1’11?). Soltanto, inesorabile: lo zero. E ancora: lo zero. Dovevo crederci di più, ma come si fa a credere allo zero? In che cosa hai fede? In chi credi? Zero.
Il tavolo delle puntate più alte è ancora aperto, ma deserto, è una serata per umanità spicciola. Quattro croupier siedono intorno, appoggiati alle loro pale, come giocatori di golf alle mazze dopo diciotto buche. Il mio amico è trafitto da un presagio: dispari. Lo sa, lo sappiamo, perché ci è già successo: dovrebbe andare li e scommettere tutto quel che abbiamo, fiches, franchi svizzeri, euro, credibilità. Vinceremmo. Ma poi ci perdonerebbero Roberto Vecchioni, Nanni Moretti e la figlia che non abbiamo? Così punta soltanto due grosse fiches, torniamo in pari e usciamo. Tre ore: zero assoluto. Com’era? Soltanto i giocatori sono invincibili.