Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 04 Mercoledì calendario

RAGAZZI, GIOCATE ANCHE VOI


A fine intervista Diego Piacentini mi porterà sul terrazzo per farmi vedere che cosa è diventata Amazon, il gigante dell’e-commerce di cui è dal 2000 vicepresidente, riportando direttamente a Jeff Bezos sullo sviluppo globale.
La prima volta che ci ero venuto, un paio d’anni dopo la fondazione, la sede era in un piccolo ufficio, si vendevano solo libri e c’era chi ricordava i primi ordini: il computer faceva scattare una campanella e gli impiegati si riunivano per vedere chi tra loro conoscesse l’acquirente.
Ora che ha un fatturato di circa 61 miliardi di dollari, e che si prepara a raggiungere i 100, Amazon sta costruendo una città sulla riva del Lake Union, vicino a Seattle: dove prima c’era un quartiere dismesso sorgono palazzi popolati da una parte dei 100 mila impiegati dell’azienda. Molti li vedi girare con il cane – portarlo al lavoro fa parte dei benefit dell’azienda, e negli angoli ci sono ciotole con biscotti sotto ai motti del fondatore Jeff Bezos: «Nessuno può prevedere quale impatto reale avrà Internet: siamo ancora al primissimo giorno».
Prima di tutto però Piacentini mi informa sulla partita di Champions League in corso: «Il Milan perde 3 a 1 col Barcellona: io ho scommesso che ne prenderà 4 nella Fantachampions organizzata con gli italiani che lavorano qui». Si limita a seguire? «Gioco anche, in due campionati: over 40 e over 50». Ride quando gli dico che a 53 anni di lui in Italia dicono ancora «il giovane Piacentini». «Sono tra i più anziani in azienda, e da 13 anni lavoro per un uomo più giovane di me».

Quell’uomo è Bezos, ma lei è stato altri 13 anni alla Apple dove ha collaborato con Steve Jobs: due capi esigenti.
«Entrambi hanno creato grandi gruppi non copiando ma innovando: per farlo bisogna essere persone speciali».
Due ossessivi?
«Più che ossessione, passione. Con grande attenzione ai dettagli. Ma tutti i geni sono un po’ ossessivi».
In che cosa li ha visti diversi?
«Con Bezos lavoro a contatto quotidiano, richiede moltissimo, ma dà anche tanto. La sua priorità è la soddisfazione del cliente, ed essendo un creatore di innovazione il suo metodo è lo sbaglio: non si può che procedere per errori e revisioni. Con Jobs lavoravo più a distanza».
Jobs cercò di trattenerla, quando lei ricevette l’offerta da Amazon?
«Mi convocò e, visto che non mi convinceva a rimanere, cominciò a parlare male di Amazon chiedendomi per quale follia volessi abbandonare Apple, che stava reinventando i computer, per infilarmi in una noiosa impresa di commercio online».
Poi però rimaneste amici.
«Amici è una parola grossa: non so se Steve ne avesse, sicuramente io non ne facevo parte. Diciamo che mi ha usato per mantenere un contatto con Amazon».
Ma lei perché era così convinto?
«Perché Amazon era un’azienda nata da Internet, mentre Apple non lo era: c’è stata una coincidenza fortunata».
Quale?
«Il penultimo anno di liceo lo avevo fatto a Olympia, a sud di Seattle, e mi sono innamorato di questa città. La più convinta a trasferirci fu Monica, mia moglie, che avevo conosciuto quando facevamo il liceo scientifico a Milano».
È stato fortunato altre volte?
«Io cito spesso il film Sliding Doors: secondo me la vita è così, frutto anche del caso e delle sincronie. Cosa sarebbe successo se non avessi fatto una tesi di laurea intitolata Modelli di trasporto del carbone su chiatte sul fiume Po? Dopo la Bocconi mi venne offerto un posto a Wharton, la più grande business school del mondo: la mia grande fortuna fu andare invece a lavorare in Fiat due anni, da lì il passaggio in Apple. I miei amici mi dicevano che ero pazzo».
«Negozio infinito» e «Supermercato del mondo»: quale delle due definizioni di Amazon le piace di più?
«Supermercato del mondo».
Ma perché volete fare tutto? Ormai è guerra a tutto campo tra Amazon, Google, Apple e Facebook.
«Il digitale ti permette di concepire un’azienda in modo diverso rispetto al passato.
Su Internet è possibile fare la spesa la sera prima di tornare dalle vacanze in modo da avere tutto sulla porta di casa all’arrivo, come faccio con Amazon Fresh. Incominciare a leggere un libro su Kindle, aver dimenticato il Kindle in hotel e continuare a leggere il libro sul mio smartphone dal punto in cui l’avevo lasciato. Possiamo vendere prodotti e servizi web con Amazon Web Services: possiamo fare tutto».
È vero che il vostro cloud ospita anche il traffico di dati della Cia?
«Certo, e anche di altre parti del governo americano. Ma ci sono altre migliaia di aziende, tra cui dall’inizio Netflix, che ormai sta diventando una rete Tv».
Anche voi avete cominciato a produrre serie originali: state per trasformarvi in una Tv? Ed è vero che state per uscire anche con un cellulare?
«Non facciamo mai annunci. Ma come dicevo prima: Internet rende tutto possibile».
Che opinione si è fatto sul Datagate e le intrusioni dei governi nella privacy dei cittadini?
«Quello che posso assicurare è che Amazon non ha mai condiviso un solo dato».
Buona parte del mondo editoriale pensa che Amazon abbia ucciso il mercato dei libri con la sua politica di prezzi e col Kindle: come risponde?
«Non è arrivata solo Amazon a trasformare l’industria dei libri. È arrivato il futuro, che però non ha mutato la centralità del contenuto. I libri e gli articoli autopubblicati su Amazon rappresentano ormai una parte preponderante nell’offerta del Kindle store».
Bezos ha comprato il Washington Post: state per cambiare anche il giornalismo?
«Non seguo quel progetto, anche perché è portato avanti non all’interno di Amazon ma di Bezos Expeditions, il suo gruppo di investimento personale. Fossi un giornalista, però, porrei in lui molte speranze di trovare una soluzione al problema del modello di business che affligge i giornali».
In Italia come va?
«Molto bene. Ci dicevano che la gente aveva paura a usare le carte di credito online, che la logistica era pessima, e che per questo Amazon avrebbe fallito. Rispondevamo che mancava semplicemente l’offerta giusta, e avevamo ragione: la gente ora compra online, e non solo da noi. Il nostro arrivo ha vitalizzato un intero settore».
Come vede la crisi del Paese, dati di vendita alla mano?
«Il fatto che mi colpisce di più è che sul nostro sito hanno aperto una vetrina 8 mila vendors italiani: imprese piccole o grandi che affidano buona parte delle loro vendite all’online. È un segno di vitalità impressionante».
Eppure dall’Italia molti ragazzi se ne stanno andando.
«Non mi sembra un dato negativo: questa è una generazione che se non trova opportunità dove vive va a cercarsele altrove».
Ma questo non impoverisce chi rimane?
«No, e non credo che la vendita di aziende italiane a gruppi esteri sia un segnale negativo: se è il momento giusto per farlo, vendere è una scelta legittima. Negativo è invece il cinismo diffuso che porta alla paralisi. Internet è un’opportunità incredibile di mettersi sul mercato: comincia col vendere la tua collezione di dischi su Amazon. Basterà a risvegliare il tuo spirito imprenditoriale. Oppure studia online un linguaggio software su come comporre app: se sei bravo, in poco tempo ti ritroverai a guadagnare uno stipendio».
Che legame ha con l’Italia?
«Fortissimo, e lo stesso i miei due figli, che si sentono molto italiani anche se sono nati negli Stati Uniti. Abbiamo preso una casa a Lerici, in Liguria, dove amiamo passare le nostre vacanze».
Nostalgia?
«Ogni tanto a casa giochiamo alla Fantafamiglia: che cosa sarebbe successo se fossimo rimasti in Italia?».
Che cosa sarebbe successo?
«L’unico che ha le idee chiare è mio figlio: dice che a scuola sarebbe andato molto meglio. Allora gli ricordo che lui la scuola italiana non l’ha mai sperimentata: è molto più dura di quella americana, e produce grandi talenti».