Marina Cappa, Vanity Fair 4/12/2013, 4 dicembre 2013
SONO IL (NON) CONTE DI MONTECRISTO
Rebus per chi crede nei segni (perlomeno dello zodiaco): come possono essere nati nello stesso giorno – 14 luglio – un depresso come Ingmar Bergman e un ottimista come Renato Pozzetto? Forse il segreto sta nell’annata: il regista svedese nasceva alla fine della Prima guerra mondiale, l’attore italiano quando era appena cominciata la Seconda. Oppure nella latitudine: più dolce della Svezia, il Lago Maggiore ha cullato speranze, curiosità e fortune del giovane Pozzetto.
Adesso che ha 73 anni e torna su Raiuno con la miniserie sulla crisi Casa e bottega, a quegli anni sul lago e a Milano (nato in città, era sfollato con i genitori a Gemonio, dove poi ha continuato a tornare) l’attore ripensa con piacere. Non è solo nostalgia, il Maggiore per lui è anche il presente: tempo fa, con il fratello ha acquistato una cascina e un bel terreno, ha lasciato che i contadini continuassero a star lì, e alla loro morte ha trasformato il tutto nella locanda Montecristo (niente a che vedere con il Conte: è il nome della località), con chef rinomato.
Piemontese, perché la cucina delle Langhe «è meglio di quella del Varesotto». Visto poi che – al contrario dela sua «gallina» di un tempo – l’attore è «un animale intelligente», i ricordi di Pozzetto non hanno mai i toni tronfi che si potrebbe pur permettere, avendo girato decine di film e continuando a fare il tutto esaurito nei teatri. «Merito della fortuna», dice mentre si siede nell’ufficio della Alto Verbano, la società di produzione dei suoi figli Giacomo e Francesca, che condividono con lui anche lo stesso condominio: Renato e la moglie Brunella li volevano vicini. Lei è scomparsa nel 2009, ma lui è rimasto lì, attaccato ai figli e ai 5 nipoti: «Una volta pensavo di proteggerli, adesso mi sento più protetto io».
Suo figlio ha mai voluto fare l’attore, oltre che il produttore?
«Forse da ragazzo, ma io non l’ho mai spinto, anzi. Questo è un mestiere che si appoggia molto sulla fortuna. Meglio un lavoro “normale”».
Lei si considera fortunato?
«Sì, perché con Cochi abbiamo avuto l’ispirazione di fare un cabaret che allora non esisteva, ed era il momento giusto. E poi c’è stata la fortuna di incontrare grandi come Jannacci, Gaber, Fo, Lauzi... Anche il mio primo film (Per amare Ofelia, 1974, ndr) non ero sicuro di farlo, con Cochi andavamo così bene... Invece ha funzionato, ho avuto la fortuna di capire come gestire la macchina da presa, che è un altro mondo rispetto al teatro».
Quando andava al cinema...
«Io non sono mai andato al cinema. Non è che non mi piace, ma è come le bocce o il tennis: non fa parte dei miei programmi».
Non assisteva alle prime dei suoi film?
«Quelle sì, anche se certe volte soffrivo: magari il pubblico rideva, ma io capivo che certi film erano presi per i capelli. Succede anche agli atleti, ci sono momenti migliori e peggiori».
Non tutti però lo ammettono.
«Eh, certi film miei son proprio brutti. Pensi che ho un grande amico nel mondo dello spettacolo, Paolo Villaggio, e con lui ho fatto i tre film più brutti della mia vita, Le comiche. Tanto è vero che dopo ho smesso».
Villaggio in queste settimane recita in teatro: lo ha visto?
«No, mi ha pregato di non andare. Allora l’ho portato a mangiare risotto e cotoletta alla milanese, in un locale della via dove abita Cochi».
A proposito di Cochi: non è lui il suo grande amico?
«Villaggio nella vita mi ha sempre divertito, ci vedevamo spesso con i nostri bambini, ci fronteggiavamo sulle Bocche di Bonifacio, andavamo in spiaggia, facevamo da mangiare... Con Cochi eravamo amici da bambini, poi siamo cresciuti insieme e ancora recitiamo insieme».
Tornate a teatro?
«Fra un paio di mesi, con il recital Quelli del cabaret. Intanto Cochi fa un altro spettacolo, però non so mai se gli fa piacere che vada a vederlo».
Perché?
«Per esempio il nostro spettacolo l’anno scorso al Nord è andato benissimo, a Roma un po’ meno. Abituati come siamo ai grandi successi, se un amico ci viene a trovare una di quelle sere con il pubblico non proprio sintonizzato un po’ dispiace».
Parliamo della Tv. Come mai ha deciso di tornare?
«Tre anni fa mi è venuta l’idea di parlare di questa crisi, attraverso i problemi di un imprenditore. Certo, il momento drammatico ha chiesto di sacrificare un po’ il nostro umorismo, mio e di Nino Frassica che interpreta mio cognato. È sempre una commedia, ma siamo stati ligi nel raccontare cose serie, il rapporto con le banche, gli strozzini, il fatto che a un certo punto io penso di farla finita».
Lei l’ha sentita la crisi?
«Ho vissuto un’altra crisi, quando dopo aver fatto tanti film sono arrivati i giovani a scalzarmi. Certo, sento amici e parenti che hanno problemi, anche nel settore dei miei figli c’è meno lavoro».
Come ha reagito quando è stato «scalzato»?
«Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Ma non si può pensare di morire sul set. Ho avuto una carriera fortunata, e l’ho goduta tutta. Ho vissuto bene, la gente ancora mi vuol bene. Mi ritengo fortunato. Nei film facevo il giovanotto e incontravo bellissime attrici».
Ha anche avuto un matrimonio lungo.
«E felice. Mia moglie era fantastica, non gliene fregava niente del cinema, non è voluta venire a Roma ad abitare anche se le avevo preparato una casa bellissima».
Come vi siete conosciuti?
«A 15-16 anni, sul lago. Faceva parte della nostra compagnia».
Lei com’era da ragazzo, prima di diventare famoso con il Derby, Il poeta e il contadino, Canzonissima?
«Ero curioso, non stavo mai fermo. Venivo da una famiglia semplice. Ho imparato ad andare in bici senza gomme, solo con i cerchioni, per dare un’idea. Ma non ho sofferto. Anche se i momenti della mia vita che ricordo con maggior piacere sono i giorni in cui mia mamma mi portava all’oratorio, dove giocavo, un panino al salame. Più forte di tutte le altre emozioni che ho avuto è il profumo di quel pane e di un buon salame. Allora l’unica cosa che non costava era la parola, quindi mi dedicavo a quello, a parlare, cantare, strimpellare».
Dopo, per lei tutto è cambiato. Come ha investito i suoi guadagni?
«Non è che ho investito tanto, mi sono divertito, li ho usati per vivere bene».
È un appassionato d’auto, vero?
«Sì, ma un amico mi ha imbrogliato, avevamo una società al 50 per cento, e lui ha intestato tutto a sé».
Suo fratello era un immobiliarista: lei non ha il pallino delle case?
«Io ho studiato da geometra e mi piaceva. Sono cresciuto nelle periferie milanesi, quelle degli operai e un po’ di malavita. Andavo spesso a giocare nei campi, vedevo questi buchi da cui venivano fuori palazzi, i quartieri che crescevano. Mi appassionavano le case. Ai tempi c’erano le case dette “minime”, per le famiglie povere, con materiali di risulta».
Che cosa aveva di diverso quella crisi rispetto a quella d’oggi?
«Che io ero un bambino. I miei facevano i conti ogni settimana, ma io non sentivo la crisi, per me mangiare un piatto di pasta non significava essere poveri. Mi costruivo i giocattoli, il monopattino, i meccanici mi davano una mano prestandomi la pinza o regalandomi una vite. Facevo le passeggiate in montagna, mi sentivo un eroe, come quando nuotavo in mezzo al lago e i pescatori mi sgridavano perché era pericoloso».
È a quei tempi che risale la sua abitudine di risuolarsi le scarpe?
«No, me lo ha insegnato Cochi. Lui ha uno strano rapporto con le scarpe, ne ha tantissime, tutte speciali, e ci parla. Le suola tutte, allora lo faccio anch’io per imitarlo. Quando sono andato dal suo calzolaio, mi ha detto: “Ma lei suola queste scarpe?”. “Sa, non ne ho di migliori”, gli ho risposto. Pensare che ho sempre sbagliato a comprare le scarpe, tutte strette. Adesso posso cambiarle, ma da bambino dovevano durarmi a lungo e soffrivo».
Com’è il rapporto con Cochi?
«Abbiamo diviso moltissimo tempo, ma ognuno con i suoi mondi. Poi lui adora viaggiare e io no, preferisco tornare nei posti che amo e dove ho i miei giocattoli».
Quali giocattoli?
«Le moto per esempio, anche se inizio a sentirne il peso. Ero abituato a smanettare, ero bravo a guidarle, e ai tempi si andava senza casco. Adesso vado in scooter, sulla mia bella moto esagerata va mio figlio. Però quando passa uno che va forte c’ho un po’ di invidia».
Il tempo passa, gli amici scompaiono. Pochi mesi fa è morto Jannacci, con cui avevate iniziato. Eravate sempre in contatto?
«Le carriere ci hanno un po’ allontanato, io ho fatto 30 anni di cinema e di vita a Roma, l’amicizia si era diradata. Durante la malattia, mi ha detto: “Da te così non mi voglio far vedere”. E non ci siamo più incontrati. Una perdita grande. Ci siamo tanto divertiti, lui mi prendeva in giro, dissentiva da quello che facevo».
Per esempio?
«Il mio primo film. Avevo premura di farglielo vedere, e lui a fine proiezione mi dice: “Hai fatto una cagata”. Poi ho visto i suoi film e mi sono messo il cuore in pace, ma non gli ho detto niente. Avevo soggezione, era inarrivabile anche se faceva di tutto per non sembrare il maestrino. Ancora oggi quando sono in moto, nel casco canto le sue canzoni e mi commuovo. Per un po’ è stato anche il mio medico di base».
La curava bene?
«È stato fortunato, io di rado stavo male. Ma se avevo una bronchite veniva a casa, mi faceva un’iniezione e poi se ne andava ridendo come un pazzo. Un po’ mi preoccupavo».