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 2013  dicembre 04 Mercoledì calendario

LA LEGA È MORTA IL LEGHISMO È PIÙ VIVO CHE MAI


Nessuno parla più della Lega. Quando si fanno ipotesi su come andrebbe a finire in caso di elezioni in primavera, tutti si chiedono se un Pd di Renzi potrebbe vincere da solo, se Grillo farà il bis, se Berlusconi compirà l’ennesimo miracolo, se il Nuovo Centrodestra morirà in culla o risulterà determinante. Ma nessuno, appunto, parla della Lega.
Quando se ne parla, se ne parla come di roba da Storia illustrata. Infatti nei giorni scorsi sulle prime pagine dei giornali la Lega è sì tornata, ma c’è tornata appunto per vicende passate: il processo contro il cerchio magico, il tesoriere infedele, la laurea finta del Trota. Fatterelli, o misfatterelli, un po’ provinciali, in fondo la prova del mesto tramonto di un’epopea durata anche troppo. Soprattutto la scomparsa dalla scena politica di Umberto Bossi - che della Lega era non solo il fondatore, ma anche l’unico vero leader - fa pensare che una stagione sia finita per sempre.
Tutto questo è innegabile. Ma comporta il rischio di una grave sottovalutazione politica.

Il rischio di non vedere che, se la Lega è morta, il leghismo è più vivo che mai. Per leghismo non intendo un progetto politico, federalista o secessionista che possa essere, ma la rabbia del Nord. Una rabbia che è ancora più forte di quella sul cui fuoco poté soffiare, ormai quasi trent’anni fa, l’allora politico da bar Umberto Bossi e, ancor prima di lui, l’orgoglio veneto che diede vita alla Liga. Allora infatti si recriminava contro l’occupazione dei meridionali nelle scuole e negli uffici pubblici, contro l’arrivo dei primi immigrati, contro Roma ladrona e sì, certo, anche contro le tasse e la burocrazia: ma non c’era, ad aggravare tutto, la drammatica crisi economica di oggi. Il Nordest era in pieno miracolo, e la Lombardia il Piemonte e la Liguria erano sempre e comunque il triangolo industriale d’Italia.
Oggi, chi uscisse dai Palazzi della politica (per Palazzi intendendo anche l’astrazione di molte analisi giornalistiche) e incontrasse gli imprenditori (grandi, medi e piccoli) del Nord - ma anche i professionisti, gli artigiani e pure molti lavoratori dipendenti a rischio disoccupazione - si accorgerebbe che la crisi ha acuito a dismisura il rancore contro Roma e contro l’Italia, più che mai ritenuti capitale corrotta e Nazione infetta, o come minimo inetta.
Lunedì sera, a Milano, c’è stata una cena con Maurizio Lupi e un centinaio di imprenditori. A un certo punto uno di questi imprenditori si è alzato e ha detto: «Caro ministro, la mia azienda ha un carico fiscale di quasi il settanta per cento. Sa che c’è di nuovo? Che con il mio socio abbiamo deciso di aprire un’altra fabbrica in Svizzera, dove produrremo le stesse cose e risparmieremo fin da subito il venticinque per cento di tasse». Tutti i presenti hanno dimostrato di pensarla così, e il problema è che nessuno stava contestando Lupi, al quale anzi riconoscevano buone idee e buona volontà. Il problema è che ormai questo mondo pensa che, anche se c’è un ministro che dice cose giuste, non lo faranno lavorare. Il problema insomma è una sfiducia insuperabile in un sistema che stritola le migliori persone e le migliori intenzioni.
Anche un mese fa, a Verona, all’assemblea della Confindustria provinciale, ho sentito discorsi del genere. E quando, la scorsa settimana, sono stato nella Bergamasca per raccontare una storia di «nero» depositato in banca, ho sentito quanto gli imprenditori siano solidali con chi fa appunto «il nero». E badate bene: se è vero che la furbizia e l’egoismo non sono estranee a queste inclinazioni, è vero pure che sarebbe miope non cogliere anche una giusta esasperazione per un carico fiscale al di là di ogni confronto internazionale («Quest’anno chiudo in perdita, perché devo pagare l’Irap?», mi ha detto uno) e per una burocrazia che rende quasi impossibile l’apertura di una nuova impresa.
Non sappiamo chi raccoglierà, nelle urne, i frutti di questa rabbia: probabilmente nessuno. Ma non è questo, comunque, l’aspetto che deve preoccupare la politica. L’aspetto principale è che il declino della Lega non deve illudere: al Nord c’è qualcosa di più profondo di una protesta, c’è una voglia di andarsene. E una rabbia che non è più contro i politici, ma contro lo Stato, il che è molto peggio.