Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 4/12/2013, 4 dicembre 2013
LA VIA GLUCK DI LETTA E QUEI RIVALI DI FIRENZE
Pisani contro fiorentini. Renzi non è neanche nominato; Enrico Letta si misura direttamente con Dante. Se il sommo poeta arriva a invocare una sorta di tsunami.
«Ahi Pisa, vituperio delle genti/ del bel paese là dove ‘l sì sona/ poi che i vicini a te punir son lenti/ muovasi la Capraia e la Gorgona/ e faccian siepe ad Arno in su la foce/ sì ch’elli anneghi in te ogni persona!» , il presidente del Consiglio risponde citando la satira che della Divina Commedia fa un poeta del luogo oggettivamente meno noto, Renato Fucini. Letta però lo definisce «immortale», precisando di conoscerlo a memoria: «Un ci ho capito un’acca. N’ho letti un canto o due così pel fare; ma ho smesso. O se ’un si sa quer ch’armanacca. Da principio ’mprincipia a camminare; Po’ doppo entra ’n dun bosco, e po’ si stracca; trova ’na Lontra e lui vole scappare… Buggerate, ti dio, le dice a sacca. Ho letto anco la storia d’Ugolino. Li, poi, si butta a fa’ troppo ’r saccente E a da’ bottate all’uso fiorentino. Tu sentissi che robba ’mpeltinente! O che ’un s’è messo a di’, questo lecchino, Che Pisa è ’r vituperio delle gente!”».
È una delle sorprese di «Pisa nell’anima», il libro che raccoglie 23 interviste di Cristina Barsantini a pisani illustri. Dopo Dante, l’intervistatrice cita Leopardi: «L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quello di Firenze…». Al che Letta si intenerisce: «Quella di Leopardi è una descrizione straordinariamente efficace dei lungarni. Belli e suggestivi proprio perché bassi e con una curva larga che consente una visuale davvero difficile da descrivere. Dietro si stagliano i monti pisani e nelle giornate terse lo sfondo è meraviglioso. Non sono paragonabili a quelli di Firenze che sono alti e quindi meno scenografici, anche se Ponte Vecchio — lo ammetto — è sempre Ponte Vecchio... insuperabile. Passeggiare per i lungarni la sera è romanticismo puro, mettersi a cavalcioni sulle spallette al tramonto un’esperienza unica».
Il premier si fa fotografare con il pallone in mano lungo la ferrovia di via Tino di Camaino, «per me una sorta di via Gluck», dov’è la casa in cui è cresciuto, e rievoca la sua infanzia pisana: «La ferrovia è una specie di confine tra mondi. Di qua, il quartiere di Porta a Lucca, quello dei «bimbi bene», di là il quartiere di Gagno, quello dei «bimbi male». Li ho frequentati entrambi, grazie a due cose che mi hanno costretto ad attraversare continuamente quel confine: le scuole medie Mazzini e la Parrocchia di San Pio X, che sta nel quartiere di Gagno. Alle Mazzini quel confine della ferrovia si riproduceva di nascosto, rispuntando a volte nelle pagelle, perché di solito quelli di Gagno erano i più «sbuccioni», studiavano poco e in ogni classe c’erano almeno uno o due pluribocciati, tutti sempre di quel quartiere. Erano più grandi di età, possedevano già un motorino (le ragazze guardavano loro!), e non sono mancati episodi un po’ camerateschi, quelle piccole «lezioni di vita» che mi tornarono alla mente vedendo alcune scene del film Ovosodo di Virzì, dove accadevano cose molto simili».
Non ancora appassionato di subbuteo, simbolo degli anni Ottanta di cui è grande estimatore, il piccolo Enrico preferiva il calcio quello vero: «Era il nostro grande collante. Giocavamo in continuazione, dovunque, soprattutto per la strada. Con i primi oggetti a disposizione (borse, scarpe, mattoni...) si improvvisavano in mezzo alla strada le porte, piccole, senza un portiere — in gergo si diceva “si gioa a porticine”, senza la acca aspirata, che è fiorentina non pisana —, e così si passavano interi pomeriggi. Le strade erano sempre invase da sciami di bambini che giocavano; oggi, ahimè, non accade più. La Parrocchia di San Pio X è stata l’altro grande luogo dove ho vissuto insieme alla gente di quei quartieri; dopo anni capisco sempre più quanto sia stato importante e fecondo quell’ambiente. Lì quella «barriera sociale» rappresentata dalla ferrovia scompariva magicamente, eravamo tutti uguali, spensierati, sotto le ali del sanguigno don Battaglini, la cui presenza nel quartiere era forte, importante, tanto da meritarsi il soprannome di Papa di Gagno».
Letta racconta che un vero pisano si riconosce dall’espressione «gao déh» (ma cosa vuol dire? «È praticamente intraducibile. Il forestiero che ne volesse conoscere il significato venga a Pisa e faccia una qualunque richiesta in maniera eccessiva, arrogante… capirà subito»). Resta da capire cosa significhi avere un pisano, anziché all’uscio, a Palazzo Chigi. «È un grande privilegio, quello di servire il proprio Paese — dice lui —. È chiaro che ciascuno di noi è figlio del luogo in cui si è formato. È come se lo portasse ovunque con sé, sotto pelle. Ecco, io di Pisa porto sempre con me la bellezza, l’apertura al mondo, ma anche» e qui Letta avverte i rivali, fiorentini e non «quella scanzonata ruvidezza con la quale da questo mondo sa proteggersi».