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 2013  dicembre 04 Mercoledì calendario

PYONGYANG

— Non ci sono altre immagini se non i poster di propaganda della guerra antiamericana e quelle dei “cari leader” lungo le strade linde della capitale nordcoreana Pyongyang. È così anche nei villaggi, nelle città della costa e dell’interno, virtuali mausolei all’aperto che immortalano la dinastia dei Kim giunta alla terza generazione. Di notte, quando manca l’elettricità e nel 98 per cento del Paese comunista più isolato al mondo si muore di freddo e di fame, solo i loro ritratti brillano come stelle, destinate a segnare il destino di un popolo educato a credere nella natura divina dell’Eterno presidente e fondatore Kim Il-sung, del generalissimo suo figlio Kim Jong-il, e ora del loro erede Kim Jong-un.
Con la faccia di un bambino trentenne che da due anni ha un potere di vita e di morte sui sudditi, l’ultimo dei Kim ha appena eliminato dalla scena un parente stretto, l’uomo più importante della sua circoscritta corte di consulenti e collaboratori dai quali ha imparato i segreti della gestione di un potere assoluto. Si tratta di uno zio e mentore più volte ritratto al suo fianco, Chang Songthaek, 67 anni, già vice presidente della potente commissione nazionale della Difesa presieduta dal nipote,
nonché capo del dipartimento economico del Partito dei lavoratori, anche questo diretto da Jongun come l’esercito, la polizia, il Politburo, insomma lo Stato.
Secondo un parlamentare della Corea del Sud, che cita una fonte dell’intelligence, Chang Song è stato vittima di una grande purga cominciata con l’esecuzione di due suoi collaboratori, e nessuno lo ha più visto in circolazione da quando è segretamente caduto in disgrazia con la probabile accusa di corruzione. Le notizie, come sempre avviene dietro la cortina di ferro della Repubblica popolare democratica di Corea avvolta nel freddo gelido dell’inverno siberiano, sono incerte e frammentarie. Ma gli esperti concordano nell’attribuire a Chang gli unici tentativi liberali e riformisti
del Partito in campo economico, un protagonista dei primi esperimenti di joint venture e dell’eccezionale boom edilizio di Pyongyang.
Muniti di visto all’Agenzia di viaggi statale, veniamo assegnati a guide ben addestrate nell’arte della propaganda di regime. Loro compito è quello di mostrare il volto umano del grande gulag dove il culto del Kimilsungismo è una religione di Stato, e di evitare ogni nostro contatto con la gente del posto. Pochi giorni prima, l’ex veterano della guerra americana contro la Corea del Nord, Merrill Newman, era stato arrestato al termine di un viaggio organizzato come il nostro. È ricomparso un mese dopo per leggere una dichiarazione di scuse per tutto ciò che gli Stati Uniti hanno commesso durante quel conflitto durato tre anni tra il ’50 e il ’53, e del quale viene mantenuta viva la memoria. La notizia dell’arresto di Newman circola sottovoce tra il nostro gruppo che comprende almeno
sei cittadini americani e la tensione è palpabile nell’hotel Yangakdo, un casermone di 1000 stanze soprannominato Alcatraz per la sua dislocazione su un’isola del fiume Taedong, che isola gli ospiti dal resto della città. Prima dell’arrivo, il pullman fa tappa per un omaggio al ritratto mosaico dei cari leader su piazza Kim Il-sung, dove ci viene imposto di deporre mazzi di fiori, oltre all’inchino in fila per dieci di fronte alle enormi statue in bronzo del nonno e del padre di Kim Terzo erette sulla collina di Mansu tra file di bassorilievi con scene di guerra e di vittoria.
Non è difficile immaginare che solo una ristretta corte di collaboratori conosca il retroscena della eliminazione di zio Chang dai vertici del Partito e del Paese, parte della sacra famiglia venerata con preghiere e lodi. A difendere la segretezza del regime c’è un apparato di propaganda ispirato alla filosofia del Songun, “prima di tutto l’esercito”,
formato da un milione e 200 mila uomini: uno ogni 20 nordcoreani.
La seconda tappa del tour è la celebre Dmz, o zona demilitarizzata al confine con la Corea del Sud sotto una neve incessante mentre i soldati ci indicano con la bacchetta i punti della mappa dove corre il 38esimo parallelo che separa il Paese comunista da quello capitalista del Sud considerato «un servo degli Stati Uniti». La sosta è costellata di informazioni della propaganda militare sul gran numero di armistizi firmati e – secondo Pyongyang – non rispettati con gli americani e i sudcoreani, seguita da un’altra visita alla città di Kaesong dov’è l’impianto industriale «dell’amicizia» che impiega personale del Sud e del Nord, appena riaperto.
Di ritorno nella capitale, di Pyongyang ci è permesso di vedere solo brandelli oggi che la città assume almeno all’esterno un aspetto metropolitano moderno con i palazzi squadrati di lunghissimi rettangoli orizzontali e verticali grigi, rosa pastello, beige e celesti. Sembrano tanti alveari allineati e sovrapposti tra grandi arterie degne delle parate militari del regime, con l’unica eccezione del grande albergo Ryugyong di 105 piani che ha la forma di un missile svettante tra i nuovi grattacieli cilindrici lungo il fiume a ridosso della torre del Juche,
dal nome della filosofia del Kimilsungism: «Essere maestro di sé stesso », ovvero creare l’unicità coreana nell’architettura, nella politica, nel-l’arte, nella difesa. Juche è – dicono le guide recitando a memoria - il motore e l’anima di un Paese diverso che non ha bisogno di niente e di nessuno per «crescere e prosperare », tantomeno dell’Occidente.
Quanto al futuro, sembra già racchiuso nel nuovo museo della Guerra che conclude la nostra visita dopo altri omaggi e inchini obbligati ai corpi imbalsamati di Kim Il-sung, Kim Jong-il e agli oggetti che appartennero loro. Il ritratto del nonno è infatti identico al volto di Kim Jongun. E non sembra una somiglianza
casuale.