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 2013  dicembre 03 Martedì calendario

PRATO, 50 FAMIGLIE DIETRO IL RACKET CINESE


Un vero e proprio racket. Una mafia che taglieggia, terrorizza, pratica l’usura e non esita a picchiare ed ammazzare le sue vittime. Non è una favola. La mafia cinese esiste ed ha sistemi molto simili a quelli della camorra. Salvo Ardita fino a tre anni fa era a capo della sezione criminalità organizzata e straniera della squadra Mobile di Prato. «Sono stato in servizio a Prato dal 1981 all’altro ieri. Posso dire di aver visto nascere tutto» racconta oggi che è in pensione e si è dedicato alla politica nelle fila dell’Idv. «È vero, sono schiavi. La maggior parte degli operai cinesi che lavorano nei pronto moda di Prato sono sottoposti a vessazioni incredibili e solo difficilmente riescono a denunciare quello che devono quotidianamente subire». Accade di rado e solo se vengono picchiati e feriti gravemente. Se finiscono all’ospedale sono costretti ad ammettere di essere stati vittime del racket e da lì possono partire le indagini.
Tutto nasce nei primi anni Novanta. È allora che arriva la prima ondata di immigrati cinesi a Prato. La città laniera, regina del cardato, sta già soffrendo per i colpi inferti dalla globalizzazione e il settore tessile inizia a vacillare. Piano piano, in silenzio, gli immigrati cinesi iniziano ad aprire piccole ditte di confezioni, il cosiddetto «pronto moda», lavorano per terzi a ritmi forsennati e con costi decisamente stracciati. «Si avvalgono perlopiù dell’immigrazione clandestina e così si arricchiscono – racconta Ardita – I primi arresti che abbiamo fatto all’inizio degli anni Novanta riguardavano appunto questo reato». Ma la situazione cambia velocemente. Chi si arricchisce vuole ancora di più e non esita a ricorrere a metodi non proprio ortodossi. «Intorno all’inizio del 2000 arrestammo alcuni imprenditori cinesi che si avvalevano di squadracce dedite al racket e alle rapine. Erano bande di ragazzi pericolosissimi che tutti i giorni rapinavano le aziende dei loro connazionali e non esitavano a sequestrare i lavoratori. In un caso avevano legato con il nastro adesivo anche un bambino di sette anni. Un atteggiamento di chiaro stampo camorristico. Le indagini accertarono senza ombra di dubbio che dietro queste bande c’erano imprenditori malavitosi». Da lì è stata un’escalation. «Prostituzione, omicidi di tutti i tipi, estorsione, usura, spaccio di ketamina, bische clandestine» racconta Ardita.
Non è allora una leggenda metropolitana quella che si sussurra a Prato e che parla di una cinquantina di famiglie cinesi che si spartiscono il racket. «Macché leggenda. È tutto vero. Si sono arricchiti in modo esponenziale con l’immigrazione clandestina e le successive sanatorie e poi con il potere dei soldi e del ricatto hanno preso in mano la situazione». Nel corso della sanatoria del 2002, racconta ancora l’ex capo della sezione criminalità organizzata, furono arrestate un sacco di persone. Durante gli interrogatori dissero di aver pagato 30 milioni di vecchie lire alle organizzazioni criminali in patria per poter partire e che l’ultima tranche l’avevano dovuta dare all’imprenditore che li aveva presi a lavorare a Prato. «Spesso nelle loro buste paga la voce tasse era a loro carico – dice l’ex poliziotto – Il brutto è che per loro era normale. Quando spiegavamo loro che il permesso di soggiorno glielo avremmo dato noi sgranavano gli occhi e dicevano "No, no, ce lo da lui, il padrone". La schiavitù, insomma, per loro era la normalità».
E gli italiani? Possibile che non sapessero niente? «Di sicuro in passato c’è stata una sottovalutazione del fenomeno ma ci sono stati e ci sono anche tanti pratesi che hanno tratto profitto dalla situazione. Quando il tessile è andato ko a molti non è rimasto che affittare i loro capannoni al Macrolotto mezzi a nero e mezzi legalmente a prezzi da capogiro (si parla anche 15mila euro al mese nella zona di Iolo ndr). E poi nessuno ha davvero controllato se chi li prendeva in affitto facesse abusi edilizi, creasse loculi per dormire e cucine abusive. Nei contratti di affitto ci dovrebbero essere clausole precise a questo riguardo. Se ci fossero state avrebbero evitato il disastro di domenica». In questo quadro desolante, fatto di illegalità, schiavitù e idolatria del denaro, l’unica possibilità è che si diano i mezzi veri affinché la legge venga fatta rispettare. «Siamo stufi dei tavoli, il progetto Prato c’è, bisogna solo che il governo si decida a dargli le risorse necessarie. Quando sono andato via io dalla Mobile di Prato c’erano solo sette persone al lavoro, in procura ci sono solo cinque magistrati. Le parole non bastano». E le autorità cinesi, che dicono? «Dirò la verità: non c’è molta disponibilità a collaborare. Se c’è un omicidio sì ma sul fronte dei reati legati al lavoro e alla legalità c’è ancora molta strada da fare».