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 2013  dicembre 03 Martedì calendario

FERRARI: “COSÌ LAUDA MANCÒ LA SUA PROMESSA”


Vogliamo tentare di raccontare chi è Enzo Ferrari? Circolano su di lei molte definizioni: il Mago di Maranello, Drake, il grande Vecchio, ce n’è qualcuna che le assomiglia?
Non credo, perché non mi conosco.
Nel suo libro di ricordi lei si chiede: “Po ss o dire di aver esaudito i sogni e le passioni di ra ga zzo”. Adesso è possibile un bilancio?
Un bilancio lo faranno quelli che mi porteranno al cimitero.
Che cosa ha giocato di più nella sua storia, la passione o il desiderio di affermarsi?
È stata principalmente la passione. Io mi sono permesso di giudicare l’automobile come una conquista di libertà per l’uomo.
Qual è per lei la soddisfazione che più conta: aver creato un’azienda, un nome che ha un enorme prestigio in tutto il mondo o sentirsi Enzo Ferrari?
Io credo, prima di tutto, di aver fatto quello che mi faceva estremamente piacere. Mi sono limitato a fare qualche cosa che egoisticamente mi interessava. Mi tranquillizza il pensiero che quello che ho fatto non abbia nuociuto al mio prossimo. Se poi qualcuno ne ha tratto beneficio allora il mio egoismo trova una giustificazione.
Quando lei era adolescente – ha raccontato – aveva davanti a sé tre possibili strade: il giornalista sportivo, il tenore dell’operetta, il corridore in automobile: quali erano i modelli, da che cosa nascevano queste suggestioni?
Corridore in automobili perché sono nato in un’officina e mio padre si interessava già di automobili; tenore di operette perché il sabato sera mio padre mi portava a teatro con il mio compianto fratello, ad assistere alla Vedova allegra, alla Principessa dei dollari, alla Duchessa del Bal Tabarin, sono quei ricordi che mi hanno portato a desiderare di poter avere voce e talento musicale per poter incontrare delle soubrette; giornalista perché scrivevo del Modena per la Gazzetta dello Sport.
Le donne che cosa hanno rappresentato nella sua vita?
Uno stimolo.
Lei dice che considera le ragazze ai box delle terribili rivali: perché?
Indubbiamente, perché possono influenzare positivamente ma troppo spesso negativamente, il comportamento dei piloti.
Non a tutti piace il suo temperamento: “Ferrari – è l’accusa più frequente – è un dittatore”: cosa risponde?
Se dittatore è pretendere dagli altri l’impegno che io profondo nel mio lavoro, evidentemente hanno ragione.
Perché ha preso come simbolo il Cavallino rampante?
Me lo affidò la contessa Baracca Biancoli nel 1923 a Ravenna, in occasione della mia prima vittoria al circuito del Savio. Mi disse: “Metta sulle sue vetture il cavallino del mio Francesco, le porterà fortuna”. Non posso dire che aveva torto. No?
Cosa c’è dietro al successo? Lunghe notti, tante prove, tante fatiche, tante delusioni?
Dietro al successo c’è qualcosa di terribile: gli italiani perdonano tutti, i ladri, gli assassini, i delinquenti di tutti i tipi, meno che il successo.
Perché ha deciso di non assistere più a una competizione?
Questo accade dal 1956, da quando ho perduto mio figlio Dino, da allora non ho più visto una pista per le competizioni, un cinematografo , un teatro.
Com’era Dino?
Io l’ho definito un “mio figlio totale”: era come me “inquinato” di automobilismo.
Quand’è che scopre la vocazione e il talento del corridore?
Non ho scoperto niente, ho cercato di diventare un grande corridore e non lo sono stato.
In una vittoria quanto conta la vettura e quanto conta l’abilità di chi la guida?
Cinquanta e cinquanta.
Chi sono i corridori che lei ha ammirato di più?
Sono tanti: Ascari padre e figlio, Nuvolari, Stirling Moss, Collins, Musso, Fangio, Lauda.
Tra questi ne scelga uno.
Nuvolari, perché l’ho conosciuto molto bene e ho conosciuto la sua tragedia: un uomo che ha cercato la morte in corsa e l’ha trovata in un letto di umiliazione di ospedale.
Com’era Nuvolari?
Umanamente era un uomo abbastanza freddo, amicizie poche, però generoso. Il suo coraggio lo faceva essere un grande.
Come sceglie un pilota?
Molte volte è la convinzione che si matura attraverso la sua precedente attività o il caso che ci fa incontrare un individuo che ci conquista per il carattere che dimostra, la disponibilità, la conoscenza meccanica.
Che cosa si prova quando uno dei tuoi ci lascia la vita: la voglia di smettere?
Non vi è mai una sola causa che genera il fatto luttuoso, sono tante, il costruttore deve avere anzitutto la coscienza che tutto quanto era nelle sue possibilità, per dare al pilota una macchina perfetta nei limiti delle risorse umane, è stato adempiuto. In quel momento sono tante le cose che si provano.
Ad esempio?
L’allucinante fragilità della vita.
Il suo primo grande successo è del 1924, Coppa Acerbo a Pescara. Cosa significa arrivare primo?
Raggiunger un traguardo che ci si era prefissi e poter dire a se stessi: “Non hai sognato”.
Perché si corre?
Per un’ansia di superamento umano. L’uomo si differenzia dagli animali anche per questa sua scelta di rischio volontario, per questo bisogno di competere.
Che cosa si prova prima del “via”, ansia, timore?
Prima del via si prova una somma di sensazioni che scompaiono come il via viene dato.
Lei crede ai presentimenti?
Ai presentimenti no, ma alle piccole superstizioni sì. Il 17, ad esempio, è un numero malefico nel campo automobilistico.
Perché?
Perchè sono morti molti compagni con quel numero.
Sono molti i piloti superstiziosi che ricorrono a forme scaramantiche: ne ha presente qualcuna?
Sono piccole riserve mentali personali che si traducono in gesti, in abbigliamenti, in molte cose.
Lei ha detto: “Il pilota è come un fantino”. Niki Lauda le ha risposto: “Il motore non ragiona, il pilota sì”. Si conciliano queste due teorie?
Il pilota come il fantino deve amministrare saggiamente le possibilità del motore.
Co s ’ha provato quando Lauda ha deciso di non correre più per la Ferrari?
Ho pensato che mancava a una promessa.
Lei ama moltissimo la sua terra. Cosa trova di struggente nell’Emilia, come la sente legata al suo destino?
Perché ho provato a lavorare all’estero e siccome a lavorare si soffre, ho pensato che era meglio soffrire dove si è nati che fuori dal-l’Italia.
Nel 1943, con 160 dipendenti si trasferiva a Maranello e nasce la leggenda.
Non credo che sia una leggenda: è un’officina che ha avuto una sua evoluzione.
Lei afferma: “Le idee e l’ostinazione sono la nostra forza”. Davvero bastano?
Indubbiamente occorrono anche dei mezzi tecnici, perché tutte le conquiste nella vita siano la conseguenza di capacità umane e di disponibilità tecnica.
Più di 1800 persone lavorano alla Ferrari: è un’eredità pesante per chi verrà dopo?
Non credo, non c’è nessuno insostituibile.
Perché non ha mai avuto la tentazione di diventare un grande industriale?
Perché sono un costruttore: è una mentalità completamente diversa.
Lei si considera un buon figlio?
No, ho deluso mio padre per gli scarsi risultati che avevo a scuola e ho fatto soffrire mia madre per la vita che ho condotto.
Un buon padre?
Un padre angosciato che tentava di lenire il dramma incombente alimentando la sua frenesia per il lavoro.
Un buon marito?
Un marito paziente anche se le mie ribellioni esplodevano con una certa frequenza.
Ha delle speranze?
Di poter lavorare fino all’ultimo giorno.
Signor Ferrari, come vorrebbe essere ricordato?
Preferirei il silenzio, se potessi direi: “Dimenticatemi”. Se è inevitabile: come colui che ha inventato l’acqua calda.