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 2013  dicembre 03 Martedì calendario

TRA GLI SCHIAVI DEI CAPANNONI, IN CROCE PER PECHINO: “NON PARLO ITALIANO”


Camminano a capo chino gli schiavi della Chinatown di Prato. Passano veloci davanti al capannone dove sono morti bruciati sette loro compagni. Morti senza nome, tranne una donna, identificata dal marito grazie a una collanina. Di un altro hanno trovato solo il tronco divorato dal fuoco. Passano e vanno oltre, gli schiavi di questo pezzo d’Italia senza leggi né diritti. “Non parlo italiano”. Parlare è un rischio grande, piangere i morti un lusso, le lacrime vanno ricacciate in gola, e pure la rabbia per quelle loro vite che valgono meno di zero.

“RAYMON fashion”, “Good luck pronto moda”, “cheap price”, le luci sono accese, si lavora a pieno ritmo. Al Macrolotto1, 600 mila metri quadri di capannoni, neppure la tragedia ferma la produzione. I padroncini che viaggiano a bordo di auto fiammanti possono essere soddisfatti: anche oggi hanno sfornato un milione di capi a costi bassissimi e senza l’ingombro di tasse e balzelli. Sono loro, gli eredi di Mao, i veri pasdaran del liberismo più sfrenato. Le loro griffe taroccate invaderanno tutti i segmenti del mercato, dalla bancarella alla boutique. Tutto fa moda e tutto crea ricchezza. Una volta la Cina era vicina, ora la Cina del turbo capitalismo senza leggi è dentro di noi. Con i suoi capannoni lerci, dove la gente mangia, dorme, vive e lavora. Un pezzo di questo inferno lo hanno scoperto e sequestrato ieri gli agenti nella zona est della città, al Macro-lotto2. Una lunga fila di macchine per cucire, sopra una luce al neon, a terra cumuli di stoffa e intorno i dormitori. Loculi divisi dal cartongesso, una brandina e una sedia con sopra un fornellino a gas. Erano in venti, alcuni clandestini, fantasmi senza nome né documenti, altri lavoravano in nero, altri erano regolarizzati ma part time. “Ma è solo una goccia nel mare della illegalità diffusa in questa zona”, ci dice l’assessore alla sicurezza Aldo Milone, un passato da funzionario di polizia, ha lavorato all’antiterrorismo e al Sisde. “Nel ’95 lanciai l’allarme sulla proliferazione delle imprese made in China, ma nessuno mi ascoltò, ora è difficile ripristinare la legge. Anche gli imprenditori di Prato si illusero, i cinesi erano contoterzisti, pensavano di dominarli, oggi invece sono diventati una potenza”. Basta sfogliare alcune inchieste della Guardia di finanza per capire quanti soldi fanno girare i disgraziati arrivati dalle province di Zhejiang e Fujian. In via Pistoiese, il cuore di Chinatown, una sola agenzia di money transfer ha mandato in Cina in un solo anno 10 milioni di euro. Da Prato ogni anno partono per Pechino 430 milioni. Tra il 2006 e il 2010 la catena di agenzie per il trasferimento di danaro con propaggini in tutta Italia, ha movimentato qualcosa come 4,5 miliardi. Quasi il gettito dell’Imu. Sono soldi sottratti al fisco italiano, ricchezza accumulata sulla pelle dei lavoratori cinesi e fottendosene delle leggi che tutelano lavoro, ambiente e sicurezza. “È il far west”, dice il procuratore Piero Tony. “In vent’anni hanno fatto consolidare un sistema di schiavitù”, dichiara il sindaco della città, Roberto Cenni, imprenditore tessile. Il capo dello Stato si commuove e lancia un alto monito: “Basta con queste condizioni di insostenibile illegalità e sfruttamento”. Parole vuote, che già oggi saranno dimenticate. “Vuoi sapere quanti ispettori ha l’Inail? Uno, uno solo. E l’Ispettorato del lavoro? Due. Così si va alla disfatta”, Massimiliano Brezzo è il segretario dei lavoratori tessili della Cgil. Alla domanda su cosa fa il sindacato, si arrabbia: “Se questo sistema produttivo è tutto fondato sull’illegalità, allora bisogna fermarlo. Stop”. Gli fa eco Emilio Miceli, che dei tessili Cgil è il segretario nazionale: “La vicenda di Prato è una grande ipocrisia nazionale, qui si è costruito pezzo per pezzo un agglomerato di dimensioni disumane, il tutto con l’illusione di qualche soldo in più. Ma ora basta, mi aspetto che da domani carabinieri, polizia, guardia di finanza, Inail e Inps siano davanti a tutti i cancelli di quelle fabbriche e facciano il loro mestiere”. Chinatown è cresciuta come un tumore nel cuore della città. In dieci anni le imprese “ufficiali” Made in China sono passate dal 5 al 12%, mentre i cinesi ufficialmente residenti sono 13.500, 8 mila “i soggiornanti temporanei”, almeno 20 mila i clandestini: totale 50 mila. Tutti arrivati grazie a un referente che paga il viaggio e fornisce il lavoro. Chi sgarra, chi denuncia, chi chiede condizioni di lavoro umane, è fuori, out, nessun padrone cinese gli darà più un centesimo, un pasto, un letto fetente in un capannone. Chi viene scoperto, invece, viene espulso con un foglio di via dell’inutile Bossi-Fini. Rientra nella clandestinità, un fantasma come tanti, e allora il “sistema” penserà di nuovo a lui.

A PRATO ti raccontano del giro dei passaporti dei cinesi morti che vengono riciclati per i vivi da piazzare nella catena produttiva. Perché qui una azienda su otto parla cinese, un’occupazione del territorio che non lascia agli italiani neppure le briciole. Un solodato, negli ultimi dieci anni l’importazione di tessuti dalla Cina è cresciuta del 3000%, materia prima che sarà trasformata in abiti da piazzare sul mercato italiano. Il tutto nell’impotenza dello Stato italiano e con l’indifferenza complice delle autorità cinesi. Intanto “abbiamo visto immagini che ricordano Auschwitz”, azzarda il governatore toscano Enrico Rossi. “Si deve lavorare in modo sicuro e nel rispetto delle regole”, dice oggi il vice console cinese Yang Han. “Fanno solo chiacchiere”, taglia corto il sindaco di Prato Roberto Cenni.