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 2013  dicembre 03 Martedì calendario

VITO, IL PESCATORE EROE DI LAMPEDUSA “COSÌ HO CAPITO CHE ERA UN MASSACRO”


«Io sono Vito Fiorino. Ho 64 anni e non sono un eroe. Voi che non vivete di mare, lo sapete che si muore di maestrale?».
Era la prima cosa che ti dicevano tutti, il pomeriggio del 3 ottobre. «Andate a cercare Vito. Ha un bar sulla strada principale. Potrà spiegarvi meglio di chiunque altro quello che è successo». A Lampedusa c’era un sole stupendo. Atterravano in continuazione aerei carichi di giornalisti ed elicotteri della marina militare. Su furgoni del pane e del pesce, invece, arrivano i primi cadaveri ripescati al largo dell’Isola dei Conigli. Li allineavano nell’hangar dell’aeroporto, dentro sacche di nylon di tre colori diversi. Per ogni corpo, un numero scritto a pennarello: 114 alle sei di sera.
A quell’ora Vito Fiorino aveva chiuso il suo piccolo bar per lutto autodecretato. Camminava avanti e indietro per via Roma, con un codino di capelli bianchi che sbatteva sulla canottiera stinta dal sole. I parenti lo chiamavano al cellulare inorgogliti, ogni tre minuti: «Corri al bar... Torna, Vito. Dai... Ti vogliono intervistare. C’è Canale5». Ma lui continuava a camminare scuotendo la testa, sempre sul punto di scoppiare a piangere. Ripeteva a bassa voce: «Ho fatto soltanto quello che dovevo fare».
Il giorno prima era andato a pesca di tonnetti con sette amici. Insieme avevano dormito in mare e brindato alla fine dell’estate. Erano in pace. Fino a quel rumore stridulo delle sei del mattino. «All’inizio pensavo fossero gabbiani, stormi di cavazzi. Lo ripetevo al mio amico, che per primo si era svegliato. “Gabbiani, gabbiani, stai tranquillo...”. Ma mi sbagliavo. Erano urla di ragazzi a braccia alzate, che chiedevano aiuto in mezzo al mare, a mezzo miglio da noi. Allora ho preso la ciambella di salvataggio e ci ho attaccato una cima. Abbiamo incominciato a tirarli a bordo uno dopo l’altro, senza nemmeno bisogno di guardarci negli occhi. Erano ragazzi stravolti, nudi, sporchi di nafta, per questo scivolosi. Ho chiesto a uno: da quanto siete in acqua? Mi ha risposto: quattro ore. C’era scirocco e non maestrale, per fortuna. Il vento li aveva portati verso riva. Ho chiesto a un altro: quanti siete? Cinquecento, mi ha riposto. Allora ho capito che era una massacro».
Vito Fiorino ha salvato quarantasei uomini e una donna. Li ha contati personalmente durante le operazioni di sbarco al molo Favaloro. Era furioso perché i soccorsi, secondo lui, avrebbero potuto essere più rapidi. O almeno non imbrigliati dentro protocolli assurdi. «Sono arrivati con navi enormi che non servivano per ripescare i naufraghi - dice - ho chiesto di poter trasferire i miei ragazzi sulla loro barca per continuare il salvataggio, ma loro non hanno voluto». Ancora oggi è tormentato dagli orari: «Alle 6,40 abbiamo chiesto aiuto attraverso il canale 16 della radio di bordo, collegato con la capitaneria di Lampedusa. Nulla. Alle 7,20 abbiamo chiamato via telefono il centralino di Roma e ci hanno risposto: “Stanno arrivando”. Ma sono passati altri 5 se non 10 minuti, non riesco a pensarci. Mi sale una rabbia...». I morti, alla fine, saranno 366.
Tutti i protagonisti di questa storia ne sono prigionieri. Tutti hanno perso per sempre qualcosa, anche i sopravvissuti. E tutti temono di restare in silenzio, a sentire ancora quelle grida che non erano gabbiani. Ecco perché è nato il progetto «Sciabica». È una parola araba che significa rete da pesca. Vuole essere un modo per impigliare la storia, i vivi e i morti, per non lasciarli andare. Per non dimenticarli. È una raccolta di testimonianze. Piccole frasi lapidarie. Pizzini come quello di Vito Fiorino. O come questo: «Io sono Russom, ho trent’anni e non sono un eroe. Dal mare mi ha salvato Dio. E Vito».
Russom non possiede neppure il suo cognome. Non può dirlo perché ha paura che il governo del suo Paese metta in atto delle ritorsioni contro i parenti. Dall’Eritrea scappano spesso ragazzi condannati alla leva militare permanente. Russom è nato in un villaggio nel deserto. Per poter incominciare a sognare il grande viaggio ha dovuto rinunciare a tutto. Lo ha raccontato ai coordinatori del progetto Sciabica: «Ho venduto le mie 50 pecore. Mia moglie ha venduto l’oro che aveva. Io sono un pastore, so leggere le stelle. A piedi dall’Eritrea sono arrivato a Khartum, Sudan. Ho pagato 2200 dollari per andare in Libia. In Libia ho speso 1300 dollari per salire sulla barca affondata il 3 ottobre 2013. Quella notte abbiamo bruciato coperte per farci vedere, anche se qualcuno ci aveva già visto. Chi di noi sapeva nuotare si è buttato in mare. Io mi sono spogliato e mi sono tuffato».
Lo hanno messo a verbale diversi testimoni. Almeno due imbarcazioni – forse tre – hanno visto alla deriva il barcone carico di immigrati. Motore in panne. La costa ormai vicina, ma non abbastanza. Accendere un fuoco doveva servire per rendersi finalmente visibili.
Invece si sono ritrovati a nuotare nel mare scintillante di stelle. Un mare enorme e calmo, blu cobalto. Russom ha resistito per quattro ore. Stava per arrendersi quando ha sentito il braccio di Vito che lo issava a bordo. Da quel giorno lo chiama «papà». Gli deve una seconda vita. Insieme combattono contro il silenzio. Per loro e per tutti quelli che non si sono salvati. Ecco perché questa sera Vito Fiorino sarà al Circolo dei lettori di Torino per testimoniare. «Ho guardato quei ragazzi negli occhi. Ho capito che hanno un cuore e un coraggio a noi sconosciuti. Sono orgoglioso che Russom mi chiami papà. Ma nulla può avere un senso se questa tragedia non ci indicherà la strada perché non succeda mai più».