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 2013  dicembre 03 Martedì calendario

LE AZIENDE LAGER NON SI FERMANO: TUTTI AL LAVORO NONOSTANTE LA STRAGE


La porta che si apre su un mondo parallelo senza alcuna regola, a poche ore dalla tragedia del Macrolotto, a qualche centinaia di metri, via delle Fonti, dietro la questura. La polizia municipale entra di mattina presto in un capannone ed ecco ancora schiavitù e condizioni di vita e di lavoro medievali. Ci sono anche bambini piccoli e mamme che pur di lavorare per pochi euro accettano di farli crescere tra sporcizia, degrado e sostanze tossiche. Undici cittadini cinesi di cui due clandestini. 13 loculi di cartongesso costruiti su un soppalco, una cucina di fortuna con bombole a gas. Solo due buste paga al si sotto dei 300 euro e 62 macchine da cucire. Scattano il sequestro penale preventivo e quello amministrativo con la titolare cinese già uccel di bosco al momento del controllo, denunciata per reati di favoreggiamento e impiego dell’immigrazione clandestina nonché per abuso edilizio insieme al proprietario dell’immobile, italiano. Un controllo il giorno dopo la strage annunciata che nulla cambia nella quotidianità di una città Prato che è stata conquistata 20 anni fa senza che nessuno la aiutasse ad alzare barricate. Sorride amaro Roberto Petracchi che ha l’azienda davanti al capannone bruciato. «In questa strada siamo rimasti in tre italiani e uno sta facendo il trasloco in questo momento». Una porta aperta con un signore che sbraita, caccia i giornalisti, insulta, mentre svuota di tutto quella che fino ad oggi è stata la sua ragione di vita. «È nervoso, dovete capirlo, siamo espropriati della nostra vita senza un aiuto», spiega Petracchi che lavora la mano. «Io resisto perchè nel mio settore i cinesi non ci sono, troppo tecnico, non conoscono il lavoro. Loro hanno monopolizzato il settore della confezione». Petracchi racconta un mondo in cui ci sono due modi di condurre l’azienda: «quello degli italiani legale e quello dei cinesi illegale». «Come possiamo competere? Stanotte con i morti ancora qui fuori alla mia azienda c’era un camion straniero venuto a prelevare merce dai pronto moda qui intorno, a pochi metri dal rogo. I cinesi non si fermano, lavorano di notte e durante le feste per pochi spiccioli. Come facciamo a competere?».
E in questo enorme far west orientale che occupa le zone industrali di Prato nessuno ieri ha pensato di fermarsi. Aziende aperte, compratori in fila per stipare nei camion diretti in Italia ma anche all’estero, verso Spagna, Portogallo, Olanda abiti a prezzi stracciati da vendere sulle bancarelle e nei negozi delle vie affollate del centro città. Solo in Thailandia si trovano prezzi così bassi. Il blitz della polizia municipale di ieri mattina rimane sospeso nella terra di nessuno. L’azienda chiusa riaprirà in poche ore da un’altra parte. Una rincorsa impossibile.
Oggi, dopo il rogo del lotto 82 si ascoltano storie drammatiche. Raccontano di quell’imprenditore che dopo essere stato costretto a chiudere l’azienda è andato a lavorare per il «nemico», in una tessitura cinese in nero. E quando si è sentito male, un infarto, lo hanno abbandonato sulla strada fuori del capannone. Raccontano di quella donna trovata cadavere per caso, durante gli scavi di un contadino in un pezzo di terra vicino a Iolo, una delle frazioni di Prato colonizzata dalle imprese cinesi. Tanti clandestini, nessun censimento. Facile disfarsi dei morti.
«Ci sono tante storie, troppe, tutte negative», spiega Massimilano Pratesi che guida un gruppo che si occupa di nobilitazione dei tessuti, dalla tintoria al finissaggio. «Fino a cinque anni fa questo era un settore che non interessava ai cinesi, troppi investimenti da fare. Ma adesso iniziano a comprare aziende e a gestirle al solito modo loro». Che significa operai-schiavi, evasione fiscale, nessun rispetto delle regole. «Le faccio un esempio, noi siamo obbligati ad avere una persona con la patente specifica sempre presente quando sono accesi gli impianti a vapore. I cinesi ne assumono una part time e fanno lavorare l’impianto 24 ore. Secondo lei?». Sono tante le domande che non trovano una risposta logica in questo viaggio tra le imprese di Prato a poche ore dalla tragedia che ha illuminato una realtà quotidiana.
E non è che non si combatta, come spiega l’assessore alla sicurezza Aldo Milone, detto «lo sceriffo». In quattro anni 1400 controlli e 600 sequestri con 1200 aziende trovate irregolari. Gli incassi derivanti dai sequestri di macchinari superano 1,5 milioni di euro rispetto ai 220mila euro complessivi dei 20 anni precedenti.«Ma non basta e il governo ci deve aiutare, dobbiamo avere più organico per la polizia municipale, la polizia di stato, i carabinieri, la Finanza, l’ispettorato del lavoro. Solo così potremmo fare controlli quotidiani. Ma ci vuole, ripeto, la volontà politica». Mentre Milone parla davanti al capannone andato in fumo, dietro di lui sfrecciano auto di grossa cilindrata con a bordo cinesi. Auto in leasing perché i cinesi non si intestano nulla. «In questo modo non hanno nulla da perdere», dice un piccolo imprenditore tessile che dice di sentirsi «vinto». Le parole gli escono lente e mare: «Ma lei sa che a me un fido in banca non me lo danno mentre a un cinese le banche fanno tappeti rossi a fronte di garanzie ufficiali ridicole, come redditi al di sotto della soglia minima? Le banche sanno che i cinesi sono pieni di contanti. Pensi che un mio amico ha avuto una sorta di buonuscita per andarsene dal capannone pagata in sacchi della spazzatura e biglietti da venti euro».