Francesco Manacorda, La Stampa 3/12/2013, 3 dicembre 2013
LA LEZIONE DI MONCLER A PIAZZA AFFARI
Torna anche in Piazza Affari l’«euforia irrazionale», che sotto le luminarie natalizie spinge folle di risparmiatori a sognare guadagni impossibili? Oppure la straordinaria richiesta che a soli tre giorni dall’inizio dell’offerta di azioni si registra sul marchio di moda Moncler - la domanda di titoli è già pari a dodici volte l’offerta, un record che non si ricordava da tempo - ha un altro motivo e un significato più profondo?
Buona la seconda. Buona la risposta che ancora una volta danno i capitali di mezzo mondo, facendo la fila per partecipare a quella che pensano sarà una storia di successo.
Lo fanno di fronte a un marchio che ha il suo mercato nel mondo - la Moncler esporta il 75% del fatturato, il secondo posto dove vende di più i suoi piumini è una città non esattamente artica come Hong Kong e, seppur di origine francese, ha testa, stile e strategie in Italia. E’ già accaduto per nomi li citiamo in ordine sparso - come Brunello Cucinelli, Prada, Ferragamo o quella superboutique via Internet che è Yoox. Accadrebbe di nuovo se altri marchi, a partire dalle icone Versace e Armani, decidessero di sfilare anche in Borsa.
Ma proprio il successo travolgente di questi pezzi di «Made in Italy» mette in evidenza le debolezze di un intero sistema. Perché c’è la corsa per comprare i marchi italiani e non per acquistare l’Italia nel suo complesso? Perché siamo un Paese multiforme e frammentato - certo - dove accanto alle eccellenze della moda o dell’alimentare, o anche di settori meno fascinosi come la meccanica, ci sono larghe sacche di inefficienza e schiere di nanoimprese che vivacchiano senza volere o potere andare sui mercati esteri.
Ma anche per la nostra incapacità assoluta di trasformarci in un sistema. Se il lusso italiano è conteso da tutto il mondo, niente dovrebbe impedire a Borsa italiana - che per inciso in questi anni è diventata una controllata dello Stock Exchange di Londra - di diventare il mercato d’elezione per le aziende del bello e del buono, invece di vedere Prada quotarsi solo ad Hong Kong. Se Londra si candida a diventare la capitale europea delle biotecnologie grazie a sgravi fiscali che attraggono aziende grandi e piccole del settore, lo stesso dovrebbe accadere, quasi come un riflesso condizionato, per la moda in una città come Milano.
Se la guardiamo sul mappamondo, l’Italia è un piccolo Paese. Se la pesiamo sulla bilancia dell’economia globale resta leggera, con meno del 3% del Pil mondiale. Ma ha un patrimonio di cultura e competenze di altissimo artigianato, di bellezze artistiche e naturali, che pochi altri possono vantare e che soprattutto non si possono portare via da qui trasferendole dove il lavoro costa meno. Non possiamo ambire ad essere una potenza industriale che fa tutto dalle navi al vino ma possiamo, anzi dobbiamo, scegliere pochi campi in cui eccellere. La moda e il lusso, ce lo dicono i dati di mercato e la corsa degli investitori, sono una di quelle eccellenze. Un’altra è anzi sarebbe per l’appunto quel «petrolio» dell’arte e della cultura. Ma il solo fatto che tutti i musei italiani guadagnino il 25% in meno del Louvre ci dà la dimensione di quanto siamo incapaci di sfruttare quei pozzi. Se le cose stanno così, allora sarebbe il caso di trovare qualcuno che li sappia far fruttare al meglio. È preferibile una Pompei che crolla a ogni pioggia o una Pompei quotata in Borsa che raccolga capitali e sia spinta a far fruttare al meglio la sua fama planetaria? E lo stesso ragionamento non potrebbe valere per il Colosseo come per i negletti Bronzi di Riace? Il mercato non è certo la soluzione di ogni problema e certi patrimoni non si possono privatizzare a cuor leggero. Ma forse vedere la fila degli investitori che cercano di accaparrarsi a qualsiasi quotazione un pezzo degli Uffizi ci farebbe finalmente capire quale e quanta ricchezza stiamo buttando via.