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 2013  dicembre 03 Martedì calendario

QUEL CADAVERE IN RIVA AL MARE SU CUI INCIAMPÒ SORA LOLLOBRIGIDA


L’alba livida e nebbiosa del 2 novembre 1975 riservò una sgradita sorpresa a Maria Teresa Lollobrigida. Sullo stradone in terra battuta che attraversava le baracche dell’Idroscalo di Ostia, a ridosso della Torre di San Michele inciampò in «un sacco de monnezza». Imprecò contro quei «zozzoni», si avvicinò per spostarlo e s’accorse che era il cadavere di un uomo. Spaventata, chiamò il marito Alfredo e diedero l’allarme: aveva trovato il corpo dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini. Quando le chiedemmo se sapeva chi era quel morto, rispose: «Sì, me l’hanno detto, un certo Pazzolini, Bazzolini, un regista, un frocio».
Se quelle parole suggellavano la morte del poeta e dello scrittore nella visione popolare, borgatara, sulle pagine di questo giornale Geno Pampaloni ne cantava la visione intellettuale, elevandolo al rango di «santo laico». Prima ancora che la signora Lollobrigida trovasse quel cadavere sfigurato, i carabinieri avevano inseguito e fermato un ragazzotto che viaggiava su un’Alfa Romeo Gt 2000 contromano sul lungomare di Ostia. La macchina apparteneva a Pasolini, il conducente è identificato come Giuseppe Pelosi, 17 anni, un «ragazzo di vita» di Guidonia, con piccoli precedenti penali. Quando arriva la notizia del ritrovamento del cadavere dello scrittore, il ladro diventa assassino. Pressato dagli inquirenti, Pelosi racconta quella che è consacrata come la «verità giudiziaria»: l’incontro alla stazione Termini, la cena al ristorante «Al biondo Tevere», a due passi dalla Basilica di San Paolo, la corsa fino a Ostia, la richiesta di un rapporto sessuale, il rifiuto, la lotta furibonda.
«Si trasformò in una belva - racconta Pelosi - I suoi occhi erano rossi rossi e i tratti del viso si erano contratti fino ad assumere una smorfia disumana...Lo stesso bastone me lo tirò in testa, io mi sentii spaccare in due, il cuore mi batteva fortissimo. Lui si fermava poi ribatteva ancora...Fatto qualche metro mi afferrò e mi tirò un cazzotto sul naso...». Bastonate, cazzotti, Pasolini era forte, Pelosi era alla disperazione, un colpo con una tavola tramortisce lo scrittore, lo fa vacillare, Pelosi ne approfitta, sale sull’Alfa grigio metallizzato e scappa, senza neppure accorgersi che è passato sul corpo di Pasolini e gli ha schiacciato il torace.
Pelosi confessa, anche se tenta di far passare il delitto per legittima difesa o quantomeno per omicidio preterintenzionale. Il caso è risolto.
Era una verità politicamente scomoda, inaccettabile per la sinistra e per l’entourage di Pasolini che puntava a spazzare via lo squallore della sua morte, ammantandola della luce del martirio. Oriana Fallaci racconta che molti hanno visto, dalle baracche che baracche non sono, che hanno arredamenti e servizi igienici di lusso. Si rivelerà un falso scoop. Ma allora, quando uscì quell’articolo sull’Europeo, il capocronista Angelo Frignani se la prese di brutto e mi spedì all’Idroscalo in una notte buia e tempestosa, come si scriverebbe in un romanzo d’appendice. Con una rabbia feroce in corpo, insieme con il fotografo Alfredo Festuccia bussammo a tutte le porte, alcune le sfasciammo, per verificare l’arredamento, provammo a gridare per vedere fin dove si sentivano i rumori, dimostrammo che la Fallaci aveva scritto cose non vere, lo scrivemmo su queste pagine. Ma di fronte al «mito» che poteva valere l’articolo documentato di un cronistello, per di più neppure politicamente corretto?
Pasolini «doveva» essere stato ucciso nell’ambito di una «trama nera», di un complotto coperto con l’opportuna confessione di Pelosi, il «colpevole ideale». Tanto più che era difeso dall’avvocato Rocco Mangia (uno dei legali degli assassini del Circeo) e aveva avuto come perito lo «psichiatra nero» Aldo Semerari, poi ammazzato dalla Camorra. Ci si misero anche i carabinieri. Un loro infiltrato nella malavita stracciona del Tiburtino, entrò in contatto con due fratelli di 14 e 16 anni, Franco e Giuseppe Borsellino, orfani di un pugile morto suicida. Credendo di avere a che fare con un malavitoso di rango, i due ragazzi per «accreditarsi» raccontarono di essere complici dell’assassino di Pasolini. Li arrestarono in un amen e in un amen i pubblici ministeri Italo Ormanni e Diana De Martino li misero fuori, il marchio dei millantatori. Ma la frittata era fatta.
Il Tribunale dei minori che giudicava Pino Pelosi lo condannò a una pena relativamente blanda: nove anni, con la «postilla» del «concorso con ignoti». Il Presidente era Alfredo Moro, il fratello di Aldo, uomo integerrimo, qualche dubbio lo ebbe e non se la sentì di chiudere il caso. Lo hanno fatto in seguito la Corte d’Appello e la Cassazione, che cancellarono la postilla.
A distanza di tempo emergono rivelazioni e ricostruzioni a sostegno di tesi una più bislacca delle altre, compreso il furto delle pizze del film «Salò e le 120 giornate di Sodoma» come movente del delitto. Fra una rapina e un soggiorno in centri di disintossicazione, Anche Pelosi ci ha provato, tornando ad accusare i fratelli Borsellino. Nel maggio 2005, alla trasmissione televisiva della Rai «Ombre sul giallo», affermò di non aver partecipato in prima persona all’aggressione di Pasolini, in realtà dovuta a tre persone, a lui sconosciute. Per giustificare la sua reticenza e la confessione del delitto, Pelosi affermò di essere stato minacciato di morte assieme ai suoi genitori e di aver atteso a parlare fino alla morte dei tre.
Vero? Falso? Sicuramente non credibile, almeno per chi, da cronista di questo giornale, ha seguito il caso e le indagini, senza tesi precostituite. Il resto è sovrastruttura politico-intellettuale. E a distanza di quasi 40 si può dire come Tommaso Besozzi per Salvatore Giuliano: di sicuro c’è solo che Pasolini è morto.
Ulderico Piernoli