Silvia Pieraccini, Il Sole 24 Ore 3/12/2013, 3 dicembre 2013
MENO DI CINQUE EURO PER UNA GIACCA
A dispetto della crisi globale e dei controlli di polizia locali, non si ferma l’avanzata del distretto cinese dell’abbigliamento low cost di Prato, unico esempio d’Europa di filiera produttiva etnica, nata e cresciuta grazie allo sfruttamento della manodopera (in gran parte clandestina), all’evasione fiscale, al mancato rispetto delle norme su sicurezza, lavoro, igiene. Tutti elementi che l’incendio di domenica mattina nella confezione pratese "Teresa Moda" racchiude in sé come un campionario di orrori.
L’incontrastato appeal di Prato per il business cinese degli abiti a basso costo – valore stimato due miliardi di euro, di cui almeno un miliardo (il 50%) nel capitolo dell’economia illegale – è confermato dalle 500 nuove confezioni cinesi che nel primo semestre 2013 si sono iscritte al registro imprese della Camera di commercio, portando il saldo complessivo delle aziende orientali della filiera moda a quota 3.700 (sulle 5mila imprese a titolare cinese di Prato). Un gigante produttivo che sforna 1 milione di capi d’abbigliamento al giorno, per il 70% diretti oltreconfine e per il 30% ai mercatini e negozi italiani.
È in virtù di questi numeri – 1 azienda su 6 a Prato è cinese, i residenti provenienti dal paese del Dragone continuano a crescere senza freni (oggi sfiorano i 16mila, ai quali vanno aggiunti i non-residenti, per un totale che supera i 40mila orientali) – che la città toscana nel 2012 è risultata al primo posto in Italia per incidenza delle imprese a conduzione straniera sul totale di quelle registrate, col 26% (al secondo posto c’è Trieste con l’11%).
A dare linfa e vigore a questo esercito di aziende manifatturiere è l’infinita disponibilità di manodopera senza pretese e senza diritti, che gli imprenditori cinesi possono reperire in qualsiasi momento anche in altre città d’Italia e d’Europa, attivando il sistema di relazioni ramificate all’interno delle altre comunità cinesi. È per questo che una delle principali carte che il distretto cinese può spendere sul mercato internazionale è la rapidità nello smaltimento delle commesse – fino ad assicurare abiti e magliette cuciti e stirati in 48 ore – unita, naturalmente, al basso costo della manodopera, che può essere anche nullo nel caso (assai frequente) in cui il lavoratore cinese debba ripagare col proprio lavoro il costo della trasferta in Italia che è stato anticipato dal datore di lavoro o da organizzazioni criminali. Il risultato è una competizione sul prezzo che lascia allibiti: una giacca a tre bottoni costa 2,30 euro di cucitura, 45 centesimi di bottoni, 80 centesimi di stiratura, 30 centesimi di taglio e 50 centesimi di guadagno del confezionista, per un prezzo totale di 4,35 euro a cui va aggiunto quello della stoffa (spesso importata dalla Cina a prezzi dieci volte inferiori a quelli dei tessuti prodotti a Prato, 50 centesimi al metro contro cinque euro); il costo di un pantalone può arrivare a 3,20 euro, comprensivo di 1,50 euro di cucitura, 10 centesimi di bottoni, 80 centesimi di stiratura, 30 centesimi di taglio e i "soliti" 50 centesimi di guadagno del confezionista.
Nei laboratori-dormitorio si lavora fino a 16-18 ore al giorno (le restanti servono per dormire e mangiare senza muoversi dallo stabilimento), senza neppure conoscere conquiste come il salario minimo e l’orario di lavoro. In realtà il funzionamento del mercato del lavoro cinese a Prato – messo in luce da una ricerca dell’istituto Ires del 2012 – è in grado di scoraggiare anche un volenteroso sindacalista alle prime armi: la mortalità dei contratti è altissima, e a distanza di quattro anni (dal 2008 al 2012) appena l’8% dei lavoratori risulta ancora occupato. Di fronte a una stima di lavoratori cinesi a Prato che si aggira sui 30-35 mila, poco più di 12mila sono quelli impiegati (rispetto agli oltre 38mila che hanno avuto un contratto negli ultimi anni), per il 70% nel settore abbigliamento. Ventimila lavoratori, in gran parte clandestini, restano invisibili alle banche dati e al fisco. Gran parte dei contratti, addirittura il 91%, è a tempo indeterminato, fatto che si spiega con la consolidata abitudine dei datori di lavoro cinesi di pretendere dal lavoratore una lettera di dimissioni in bianco; e la forma di gran lunga prevalente è il part time, così da pagare meno contributi. Il funzionamento del mercato del lavoro, del resto, va a braccetto con quello delle aziende che nascono e muoiono a ritmo vertiginoso (il tasso di turn over è del 45,3%, contro il 13,2% delle imprese italiane); che, proprio per sfuggire ai controlli e alle sanzioni e poter sparire rapidamente, hanno quasi esclusivamente natura di ditte individuali (quasi il 90%); che vivono mediamente appena due anni. Il sistema organizzato di illegalità cinese ha attirato da tempo la criminalità organizzata, come documenta una maxi inchiesta della procura antimafia che ipotizza il riciclaggio via money transfer di quasi cinque miliardi di euro a opera di un’organizzazione mafiosa italo-cinese; ma ha alimentato anche la distorsione del sistema economico, ad esempio con la concessione di mutui a cittadini cinesi con redditi da fame da parte di un ventaglio di banche cittadine, su cui stanno indagando Procura di Prato e Banca d’Italia.