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 2013  dicembre 01 Domenica calendario

FRANCO CERRI – [“STRANA LA VITA: ERO IL FAMOSO UOMO IN AMMOLLO MA CHET BAKER INVIDIAVA LA MIA NORMALITÀ”]


La vera botta di celebrità l’ebbe quando gli proposero la pubblicità di un detersivo. Prima disse no, poi nì, infine, riluttante, accettò di trasformarsi ne “l’uomo in ammollo”. Una scelta surreale, come la sua faccia: lunga e un po’ sbilenca, sopra un corpo che sembra una fune. E mentre ripenso a quello spot degli anni Settanta, con Franco Cerri nella dimensione acquatica, mi convinco che quest’uomo gentile e schivo abbia avuto nella vita soprattutto pensieri liquidi. Cerri è uno straordinario virtuoso della chitarra. Ha suonato con i più grandi musicisti jazz. Oggi, a 87 anni, continua il suo lavoro soprattutto nell’impegno quasi quotidiano con la sua scuola di musica: «L’abbiamo fondata con Enrico Intra nel 1987. Se sai qualcosa di speciale, è bello poterla trasmettere agli altri. Vado quasi tutte le mattine in questi spazi che il comune ci ha messo a disposizione. Prendo il tram. Non guido più da otto anni. Non mi fido».
Non si fida di chi?
«Di me. Sono senza riflessi».
E poi?
«Niente. Mi osservo con una certa apprensione. Più tardi passeranno a prendermi per una serata».
Va a suonare?
«Non lo so. Mi piace pensare di essere libero di farlo».
O di non farlo.
«Si è liberi per modo di dire. Si finisce quasi sempre per suonare. È come il richiamo della giungla».
Più forte di tutto?
«È una passione che dura da quasi settant’anni».
Cominciò in che modo?
«Era il 1943. Una sera papà venne a casa con una chitarra. L’aveva pagata 78 lire. Disse: so che la desideravi. Ma non ci sono soldi per un maestro. Arrangiati».
E si arrangiò?
«Sono un autodidatta che ha imparato suonando. Finita la guerra si ballava nei cortili di Milano. Cominciai a suonare in un’orchestra. Ma senza sapere cosa. Andavo a orecchio. Per caso una sera arrivò Gorni Kramer. Sembrava un domatore di leoni. Imponente. Chiese, con la sua erre blesa, se qualcuno fra noi conosceva dei brani americani. Ero il solo che aveva praticato certa musica. Suonammo insieme. La gente danzava al ritmo dello swing. Da allora, per vent’anni l’ho seguito in giro per il mondo».
Così, come si segue un messia?
«Non aveva niente del guru. Era speciale, questo sì. Non arrivi a certi livelli se dentro non hai qualcosa che gli altri non hanno. Suonammo spesso con il Quartetto Cetra, con Natalino Otto. Grandissimi professionisti. Lo so che cosa sta pensando, che a nessuno oggi frega niente di costoro. Ma erano delle star. Immensamente popolari. In un’Italia che stava passando dalla radio alla televisione loro furono i veri traghettatori».
La televisione è stata generosa anche con lei.
«Posso dire mio malgrado».
Era l’uomo che si toglieva le macchie di sporco dalla camicia.
«Ero l’“uomo in ammollo”, la pubblicità di un detersivo. Per tredici anni, quasi tutte le sere, sono entrato nelle case degli italiani».
Cosa si prova?
«Stupore».
Solo?
«Nutrivo qualche dubbio. Come è possibile che la gente mi fermi per strada, mi chieda l’autografo, voglia stringermi la mano? Mi pareva assurdo. Pensavo: quella roba lì non sono io, pur essendo io. Un bel casino».
In fondo lavava la coscienza agli italiani.
«Lo sporco di dentro? Boh. Non so. A me sembrava più che altro la novità che la televisione creava miti domestici. La gente lavorava, sognava e consumava. Uno schema semplicissimo: la fabbrica da un lato, i grandi magazzini dall’altro. E in mezzo la televisione a fare da raccordo».
Nasceva l’era dell’intrattenimento.
«Parola magica, oggi diventata complicatissima».
Perché?
«C’è dentro troppa tensione. E sono cambiate le proporzioni. Oggi sembra che la vita sia solo intrattenimento. Forse perché non abbiamo più una vita nostra».
Lei come misurava la sua?
«Su di una base semplicissima: mai perdere la cognizione di chi sei e da dove provieni».
E lei da dove arrivava?
«Da una famiglia povera. Prima di dedicarmi alla musica, ho fatto il muratore. Ricordo il freddo di certi inverni, le imprecazioni, la fatica, ma anche l’orgoglio di portare soldi a casa, perché soldi non ce n’erano. Poi seppi che la Montecatini cercava degli ascensoristi. Mi assunsero, dotandomi di una divisa. Restai al mio posto facendo su e giù con gli ascensori, per anni. In odore di servizio militare fui mandato via».
In fondo anche la musica è un andare su e giù.
«Ci sono le scale. È vero. Ma occorre ritmo, senza quello arranchi. Come diceva Jannacci: “Ci vuole orecchio”».
Lo ha conosciuto?
«Enzo? Benissimo. Negli ultimi tempi, quando si ammalò di tumore, lo avevo perso di vista. Poco prima che morisse arrivò, con quell’aria sempre un po’ spersa, alla mostra di Dario Fo a Palazzo Reale. Con Intra avevamo organizzato un piccolo concerto jazz e costringemmo Enzo a cantare El purtava i scarp del tennis. Fu la sua ultima esibizione. Struggente. Ci conoscemmo nel 1957. Suonavo con un mio gruppo. Venne alle prove. La faccia stralunata. Mi disse che sapeva suonare il pianoforte. Gli risposi che avevo già il pianista. Ma che l’avrei sentito volentieri. Improvvisò alcuni pezzi jazz. E fu bravissimo. Nel giro di qualche anno diventò famoso e non ci fu bisogno di ingaggiarlo. Aveva quel modo strano di mettersi la chitarra sotto il muso che mi incantava».
Per essere il paese del “bel canto” abbiamo avuto musici e cantanti molto insoliti.
«E di un’intelligenza musicale rara. Ripenso a Giorgio Gaber. Veniva a sentirmi suonare alla “Taverna messicana”. Allora, negli anni Cinquanta, credo volesse dedicarsi alla chitarra e gli piaceva il jazz. Ma lo vedevo riluttante. Poi capii che aveva una mano semiparalizzata. Da piccolo aveva avuto un incidente a un braccio. Insomma, non se la sentiva di suonare. Ma dai, gli dissi, prova, la chitarra è un’ottima medicina per le tue dita. E fu così che intraprese la sua carriera ».
A proposito di menomazioni alla mano, lei ha suonato con Django Reinhardt.
«Suonato è dir poco. Siamo stati amici. La prima volta che lo vidi esibirsi alla tastiera – improvvisava il tema di una melodia francese – mi accorsi che andava su e giù nella scala cromatica con un solo dito, l’indice. Era pazzesco».
Come ci riusciva?
«Veniva dal violino. Era un grande talento. Il resto, forza di volontà. Mi raccontò che aveva perso l’uso dell’anulare e del mignolo della mano sinistra da piccolo. Era andata a fuoco la roulotte in cui viveva e gli si era parzialmente atrofizzata la mano».
Veniva da una famiglia di nomadi.
«Era un gitano e non se ne dimenticò mai. Disegnava roulotte e continuò a viverci dentro. Per tutta la vita. Con lui e Stéphane Grappelli, grandissimo violinista, agli inizi degli anni Cinquanta, abbiamo fatto alcune serate meravigliose. Django fu un genio. Totalmente analfabeta. Ma sono sicuro che non fu lui a scegliere la chitarra, ma la chitarra a scegliere lui».
Come può accadere che sia uno strumento a parlarti?
«È qualcosa di misterioso. Tu puoi fare centinaia di cose nella vita. Ma solo una, o al massimo due o tre, sono quelle autentiche che hai dentro. E non escono se quelle non vengono a bussare alla tua porta. Duke Ellington, che conobbi a Bologna, disse che un grande musicista è sempre sull’orlo del suo spartito. Ma una mano misteriosa deve buttarcelo dentro. A Duke era piaciuto come suonai quella sera»
Era lì ad ascoltarla?
«Con il mio gruppo aprivamo la serata, in un grande teatro bolognese; seguiva un trio che accompagnava Sarah Vaughan e chiudeva il grande Ellington con la sua orchestra. Al mio turno, se ne stette seduto in platea ad ascoltare. Alla fine andai per ringraziarlo e lui sorridendomi: "Very good music"».
In tanti anni cosa ha capito del jazz?
«Ha molte facce. Il jazz di Armstrong è diverso da quello di Gillespie. E il modo che aveva di suonare Benny Goodman era differente da quello di Charlie Parker. Però alla fine è come vivere accanto a un alcolista. Ti crea un sacco di problemi, ma non puoi fare a meno di ammirarlo e amarlo».
Distruzione e dipendenza?
«Non necessariamente la propria. Anche se alla fine il jazz è un demone che non porti al guinzaglio. Lui ti precede e ti sollecita».
È un padrone esigente.
«Sono stato un campione di normalità. E ancora oggi mi stupisco per la tanta strada percorsa insieme a lui».
Nel senso che poteva perdersi lungo quella strada?
«Nella cattiva sorte alcuni amici si sono persi».
A chi pensa?
«A Chet Baker. Ci frequentammo a lungo. Per più di tre anni. Si drogava di brutto. Un giorno gli dissi: ma chi te lo fa fare. Mi rispose raccontandomi una storia. Disse che un lunedì, di molti anni prima, a New York suonò in un locale. Era un’audizione. Capitò che ad ascoltare ci fosse Charlie Parker. Dormiva sdraiato su una sedia. Poi sentendo le note della sua tromba si svegliò di soprassalto e chiese chi fosse quel ragazzo. Fu così che cominciò a suonare nel suo gruppo. Era come Dio, e se Dio si drogava, pensò che, se non altro per fede, avrebbe dovuto farlo anche lui. Questo mi raccontò Chet».
In fondo è una storia di perdizione e seduzione.
«La seduzione tra noi jazzisti conta moltissimo. Chet invidiava la mia normalità. Aveva un animo gentile. Ma tutto questo quando suoni non conta nulla. E quando Chet Baker suonava tirava fuori cose indescrivibili. Ci vorrebbero le sue note per raccontarlo. Posso dire solo che era un poeta. È morto ad Amsterdam, cadendo da una finestra. Con lui si schiantò la parte migliore di quel jazz intimistico che avevo adorato. Le stesse emozioni le provai solo con Billie Holiday ».
Ha suonato con lei?
«Una sola volta. Ma bastò perché restassi colpito. E frastornato. So che dopo quel concerto la sola cosa che mi veniva di fare era piangere. Era stata fortissima la tensione che avevo accumulato. Lei era una regina. E non l’ho più rivista dopo quella sera. Morì in un letto di ospedale pochi mesi dopo. Sorvegliata da un agente della narcotici».
Cos’è la seduzione tra due musicisti?
«È complicità, ammirazione, imprevedibilità. A Gerry Mulligan piaceva da matti come suonavo. Era capace di chiamarmi da Parigi o Amsterdam per chiedermi di organizzare una jam session per la sera dopo. E pretendeva che suonassi sempre il contrabbasso».
Invecchiando cosa accade nel rapporto con lo strumento?
«Diventa tutto più faticoso. E difficile. A gennaio compirò 88 anni. Posso dire che mi è andata bene. Sono qui. Suono. E mi piace farlo ancora. Ho capito tante cose della musica. Peccato che l’artrosi tormenti le mie mani. Prima di un concerto prendo qualche antidolorifico. E per un paio d’ore posso ancora suonare beato. Non mi sono mai drogato. E ora ci dò sotto con gli analgesici. Strana la vita».
Strana quanto?
«Quel tanto forse che la rende imprevedibile. Sono anni che vivo di improvvisazione, sia nella musica che fuori».
Cos’è l’improvvisazione per un uomo normale?
«Non l’ho mai capito. Non dimentichi che sono stato l’uomo in ammollo. Le pare normale?»
Effettivamente. Ma non è un’ingiustizia che lei sia famoso più per un detersivo che per il suo jazz?
«La fama è inspiegabile, ma è giusto che non ti travolga. Sono cresciuto con un sacco di paure. Ma non ho quella di amare o rimpiangere il successo. Oggi ci sono studenti che fanno tesi di laurea su di me. Che scriveranno? Mistero. Non penso di essere importante. Alle casalinghe ho regalato un sogno un po’ farlocco. Ma al mio pubblico ho cercato di dare quel po’ di arte che arrivava da dentro. Ancora mi sorprendo sentendo il suo applauso».