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 2013  novembre 30 Sabato calendario

MASSIMILIANO GIONI: CATTELAN MI DISSE “FINGI DI ESSERE ME”


Quando nel gennaio 2012 gli hanno comunicato che avrebbe diretto la Biennale di Venezia che si è appena chiusa, Massimiliano Gioni, a 39 anni il più giovane curatore d’arte mai visto in Laguna, si trovava a Mumbai, a cena, invitato da una coppia di grandi collezionisti indiani. Magnifica casa ottocentesca, portico maestoso, balconate di legno intagliato, un albero secolare nel parco. Lui addentava un gamberone al retrogusto di curcuma e il cellulare squilla. «Non potevo chiudere, ma neppure tirarla in lungo. E non volevo dire nulla agli ospiti ma poi il cuore rimbombava a mille. Così l’ho fatto. Be’: sei dall’altra parte del mondo, con gente mai vista prima, eppure se dici che sarai a capo di un’istituzione italiana come la Biennale, l’entusiasmo dilaga, tutti sanno cos’è, e che cosa significa».
Chissà se quella sera, tra le mille luci di Mumbai, Massimiliano Gioni ha guardato a se stesso da fuori, come puntando l’occhio verso un altro, per misurare da dove è partito. Chissà se ha pensato «all’appartamentino di Busto Arsizio, dove vivevamo in cinque: mamma maestra elementare, papà impiegato in una ditta d’inchiostri e noi tre fratelli. L’arte contemporanea non era certo il nostro pane. Ma, sembra antipatico dirlo, aveva ragione Andy Warhol: la cosa bella di una piccola città è che te ne vuoi andare».
Qualcosa in Gioni, nella sua bella faccia italiana da esportazione, sembra sostare all’ombra di una perenne ala della giovinezza. «Il mio motore è sentire che non faccio mai abbastanza, che non sono mai abbastanza bravo, o all’altezza». Qualcosa, nel suo occuparsi di una disciplina massimamente considerata astrusa, ama l’idea di non essere spocchiosi, di parlare anche a chi non capisce.
«Da ragazzino scoprire la Pop Art è stato uno shock: c’era chi raccontava il proprio tempo a tutti, in modo più simile ai Velvet Underground che alla polvere di un museo. Un po’ lo sforzo della Fondazione Trussardi: disseminare l’arte nella città, creare un pubblico che dieci anni fa, quando Beatrice Trussardi mi chiamò a dirigerla, non c’era».
Qualcosa, nella sfumatura delle parole, sembra obbedire a una decisione: scartare il dramma, evitare di prendersi troppo sul serio, magari facendo cose serissime. « Al ginnasio il mio eroe era il fondatore del Dadaismo, Tristan Tzara. Che da uno spazio siderale lontanissimo diceva al ragazzo di una provincia dove tutto doveva combaciare, tutto essere perbene: si può essere liberi di non avere un senso. Non che fossi chissà quale intellettuale… Per sentirsi alternativi bastava evitare la discoteca di Legnano e marciare al Bloom di Mezzago, tempio vivente dei concerti. Ma, quando a 15 anni ho vinto una borsa di studio, sono andato il più lontano possibile, in Canada. Atterraggio memorabile alla Totò e Peppino, tento di chiamare i miei, non so che si dice collect call , mi lancio in un’articolata perifrasi e subito sento un clic, telefono sbattuto sul muso. Me la sono fatta sotto: e se non fosse così semplice?».
Sarà semplice invece, e bello, stare due anni a Vancouver Island, grande mezza Lombardia, con 100 ragazzi da 80 Paesi. « Porte aperte, niente lucchetti su armadi e cassetti, condivisione intensa, riciclo dei consumi» Eppure, proprio sull’isola canadese comincia a galleggiare l’inquietudine, una specie di terra emersa che appare e scompare per un bel pezzo di vita.
«A quel punto sapevo che l’arte era il mio posto. Però c’era una domanda: come ci campo? Ignoravo non solo l’esistenza del curatore, ma anche la parola e mi chiedevo: come fanno i critici Germano Celant o Bonito Oliva a vivere con una recensione al mese? Sarò disoccupato».
In una simulazione ben riuscita dello sperdimento giovanile da lavoro, quindici anni prima della grande crisi, il piano di Gioni è mettere a frutto l’ansia, lavorare freneticamente. A Bologna studia storia dell’arte, fonda la rivista on line Trax.it (« Tutto gratis, un’idea commercialmente idiota» ), scrive tesi di laurea chiavi in mano per studenti asini (« Non vorrei finire in galera, ma c’era un mercato piuttosto fiorente» ) e traduce per la multinazionale del rosa.
«Il primo Harmony non si scorda mai, nel senso che non si pubblica, devi imparare bene le regole. Però sono diventato bravo, conoscevo più metafore dell’orgasmo - in genere nautiche, grandi onde di piacere, flutti che sommergono o tempeste d’acqua - che ricette di pasta. Insomma, con un occhio leggevo Umberto Eco e la critica al peggio della cultura di massa, con l’altro contribuivo alacremente a diffonderla».
Come una bilancia alla ricerca costante del pareggio anche se i due pesi sono differenti. Eppure, tra necessità e ideali, tra il pane e le rose, l’anima divisa in due troverà l’impossibile equilibrio. E attraverso una bizzarria che conserva l’una e l’altra, un’arte che con una capriola continua accoglie ciò che apparentemente non c’entra nulla. Accade nel ’98. Per la rivista Flash Art deve intervistare Maurizio Cattelan, l’artista più in ascesa.
«Era l’epoca della sua prima mostra al MoMa di New York, due anni dopo sarebbe arrivato il Papa schiantato dal meteorite, l’opera della consacrazione. Si presenta con un computerino e a ogni domanda cerca lì la risposta, riciclava frasi altrui, da Warhol a Breton. Nulla combaciava, e tuttavia, alla fine, chi leggeva rimaneva nel dubbio. Ci siamo divertiti così tanto che mi dice: devo dare un’intervista alla radio, perché non la fai tu? Da allora le ho fatte sempre io. Anche dal vivo».
Nei dieci anni seguenti lo scambio di persona Cattelan-Gioni diventa la chiave che apre tutte le porte. « Innanzitutto quelle del circuito internazionale. Ma sempre stando un po’ fuori, in modalità dadaista. Come nella Biennale dei Caraibi, che rifaceva il verso al boom delle Biennali: tanto di catalogo e comunicati stampa, ma gli artisti dovevano passare il tempo al mare, in vacanza. O nella Wrong Gallery di New York, sulla mania delle gallerie: era una porta che si apriva sul muro».
Diventa gioco dell’assurdo, sfottò, e perciò spericolato esperimento artistico. «Nel 2001, a Venezia, come finto Maurizio parlo alla tivù svedese davanti a una scultura di Richard Serra, spacciata per un’opera mia, cioè sua, di Cattelan. E mentre discetto, arriva Serra in persona, incavolato nero: che credi di fare? Vai a spiegargli il senso, vai a dirgli che dell’artista non ero il portavoce, ma la voce».
La voce di un altro, ma un altro che somiglia. « Anche Maurizio era venuto da un mondo alieno, papà camionista, mamma donna delle pulizie. Aveva vergogna a definirsi artista e se ne interrogava: chi sono io? La domanda da outsider che rivolgevo a me stesso. E in fondo, il potere dell’arte è questo, indagare nella piega più oscura e nascosta di te. Una continua scoperta di ciò che non sai. Sembra una frase da Harmony. Magari è pure vera» .