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 2013  dicembre 02 Lunedì calendario

“PRIMA ARRIVÒ IL TRENO POI L’ORA PER

PRENDERLO” –

Non esistono in natura né ci sono da sempre: sono nati alla fine dell’Ottocento in America, per esigenze decisamente pratiche legate ai viaggi in treno, e oggi sembra godono ancora di ottima salute. Dei fusi orari in prospettiva storica e scientifica parliamo con il professor Gianluigi Parmeggiani, che per anni ha lavorato presso l’Osservatorio Astronomico di Bologna.
Voliamo a New York, a Pechino o a Sidney e semplicemente lo sappiamo: bisogna cambiare l’ora, seguendo una convenzione oggi universalmente accettata. Ma quando e perché abbiamo iniziato a dividere il mondo secondo le linee immaginarie rappresentate dai fusi orari?
Nella lunga e complessa storia della misura del tempo l’arrivo del treno rappresenta una svolta molto importante. Prima gli orologi segnavano ore locali, ossia quelle indicate dall’ombra di una meridiana nel punto in cui una persona si trovava. Ore, che essendo regolate dal passaggio del sole al meridiano, sono infinite quanti sono i meridiani. Poi, lo sviluppo delle ferrovie mise in discussione il tempo locale. Il problema era molto complesso e di difficile risoluzione per nazioni come gli Stati Uniti, che si estendevano su un grande territorio in senso longitudinale. Fu risolto nel 1884 dalle società ferroviarie che divisero il territorio americano in quattro zone, i cui tempi differivano di un’ora precisa, e adottarono il meridiano di Greenwich come meridiano di riferimento. Poi nelle altre nazioni il passaggio avvenne gradualmente, spesso con resistenze, obiezioni e tentativi di conservazione.
E prima di allora come ci si regolava quando ci si spostava da un paese all’altro?
Prima dei fusi orari un viaggiatore doveva armarsi di pazienza e solo con lunghi calcoli poteva conoscere la durata del suo viaggio e il momento del-l’arrivo. Se poi doveva passare il confine le difficoltà aumentavano. Per esempio, solo tra l’Italia e la Francia c’erano 47 minuti di differenza, 20 minuti con la rete ferroviaria svizzera e di 10 minuti con quella austro-ungarica. In alcuni stati della Germania era poi in vigore il sistema prussiano: gli orologi delle stazioni concordavano con il tempo locale, mentre il personale del treno aveva una propria ora. Ossia esistevano due ore, una per il pubblico e una per il servizio. Peggio ancora per un viaggiatore americano, che spesso si trovava in stazione molti orologi che indicavano ore diverse, quante erano le compagnie ferroviarie.
Utilissima convenzione scientifica, ma fortemente condizionata in senso antropico : la politica le convenzioni pratiche come nel caso della linea del cambiamento di data, Parigi è su un altro meridiano rispetto a Londra. E così i fusi sono tutt’altro che dritti come ci si aspetterebbe…
Questo avviene perché in realtà non è mai stata sancita una regola ufficiale e ogni stato decide a quale, o a quali, fusi orari appartenere. E così la Spagna si trova nello stesso fuso della Gran Bretagna, ma ha deciso di adottare l’ora dell’Europa centrale, l’India il Nepal hanno l’ora sfasata rispettivamente di 30 e 15 minuti, la Cina dovrebbe avere il suo territorio diviso in cinque fusi orari, ma, dopo essere sceso a tre, ha deciso di unificare tutto il suo territorio sull’ora di Pechino. É come se in Italia o in Germania si adottasse l’ora di Baghdad. Più vicino a noi c’è il caso della Francia: le ferite legate alla scelta del meridiano di Greenwich e alla mancata adozione del sistema decimale da parte dei britannici fecero sì che i francesi non adottassero l’ora di Greenwich secondo il sistema dei fusi, ma quello di Parigi, che si differenziava dallo standard per 9 minuti e 21 secondi. La Francia di fatto è sul tempo di Greenwich, evitando però di nominarlo.
Una cosa però è certa: l’uso delle zone temporali rimane un’ “invenzione” americana?
Non esattamente. Più di dieci anni prima della Conferenza di Washington, uno scienziato italiano aveva dato un importante contributo. Si tratta di Quirico Filopanti il primo al mondo a proporre il sistema dei fusi orari nel 1859. Pur cosciente che i traffici e commerci stavano per essere rivoluzionati dal treno e dal telegrafo, Filopanti inserì la sua proposta di questa rivoluzione della misura del tempo in un progetto di riforma del calendario. Arrivò ai fusi orari usando la sua concezione umanistica della scienza, che deve essere finalizzata alla ricerca di realizzazioni utili alla collettività. Motivazioni ben diverse da quelle che hanno poi dato realmente vita ai fusi orari, ossia fare funzionare in un modo sicuro le tante linee ferroviarie americane.
Per questo il lavoro di Filopanti è stato dimenticato?
Il libro ebbe scarsa diffusione, ma era in anticipo sui tempi: la proposta era troppo innovativa in una Europa dove solo alcuni stati stavano faticosamente uniformando i tempi ferroviari e la maggioranza usava ancora le ore locali.
E nel futuro? Pensa che useremo ancora i fusi orari?
Direi che non ci siano alternative per un sistema che, per quanto arbitrario, funziona. Ha tentato di sostituirlo nel 1998 lo Swatch Internet Time, ma con risultati deludenti. Magari rischia il tempo del meridiano di Greenwich che potrà essere sostituito dal Tempo coordinato universale che si basa su misurazioni condotte da orologi atomici anziché su fenomeni celesti. Sono tempi diversi perché la rotazione del nostro pianeta intorno al proprio asse rallenta di 1,7 millisecondi il giorno, per l’azione della Luna sulle maree e altri effetti astronomici. Ma ancor una volta sono i fattori umani e politici a contrastare la scienza: Usa e Gran Bretagna, ad esempio, non rinuncerebbero mai al sistema corrente, almeno per ragioni di storia e tradizione.