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 2013  dicembre 02 Lunedì calendario

«L’AMERICA AL VOSTRO FIANCO MA L’ITALIA SI DIA UNA MOSSA»


Volendo, potrebbero essere i protagonisti di un film a trama moderna. Lui, californiano, avvocato di successo ma del genere difensore dei contribuenti.
Il suo studio legale, Phillips & Cohen, ha vinto cause miliardarie contro multinazionali della farmaceutica. Lei, Linda Douglass, sua moglie, giornalista politica della rete televisiva Abc, è stata anche il capo della comunicazione di Barack Obama alla Casa Bianca.
Lui è il nuovo ambasciatore americano in Italia, John Phillips, occhi azzurri e curiosi, voce pacata, uno che di sicuro non vorresti avere contro in un processo perché si capisce che non molla l’osso. Non l’ha mollato neppure quando si è messo a far campagna elettorale per Obama.
All’avvocato milionario John Phillips avevano assegnato una zona dello Iowa, quartieri tra i più poveri e meno facili. «Avevo un elenco di porte alle quali bussare. Suonavo, da dietro lo spioncino la gente scrutava con diffidenza questo uomo di mezz’età dietro la loro porta. Poi lo sguardo cadeva sul risvolto del mio cappotto, dove giganteggiava una spilla con la faccia di Obama. Mi creda: gli si illuminava lo sguardo. E le porte si aprivano».
Seduto nel salotto di villa Taverna, la residenza privata degli ambasciatori americani, John Phillips ripensa con divertimento e anche un po’ di nostalgia ai suoi giorni da supporter “door to door” della campagna di Obama. È stato un sostenitore, ha raccolto fondi ma la ha anche fortemente finanziata.
Come è nato il rapporto con il presidente Obama?
«Mia moglie Linda era capo della redazione politica della tv Abc, a Washington. Conosceva tutti i politici e quando arrivò questo giovane senatore mi disse: “Lui è diverso”. Obama era un avvocato come me, il primo direttore nero della Harvard Law Review. Lessi il suo libro “Dreams from my father”, ne fui colpito: chiunque abbia letto quel libro si ritrova a pensare: “Hei, quest’uomo è speciale”».
La politica non gode di grande popolarità di questi tempi. Nemmeno negli Stati Uniti.
«Il pensiero comune del momento è che i governi non servono: qualsiasi cosa fanno, la fanno male. Lo shutdown, il conflitto tra repubblicani e democratici che ha rischiato di lasciare senza fondi il governo federale, è il frutto di questo pensiero comune, il riflesso di una polarizzazione della politica. Ma la politica è anche compromesso, non può sempre essere lotta all’ultimo sangue. Oggi invece si è ridotta a un mix: colpi bassi e ossessiva ricerca di fondi per il finanziamento».
Anche in Italia c’è disaffezione per la politica. Questa è stata la settimana della decadenza di Berlusconi da senatore. Pensa che si sia chiusa un’epoca?
«Non è opportuno che mi esprima sulla politica interna italiana. Posso soltanto dire che le relazioni tra America e Italia sono state ottime con tutti i governi degli ultimi venti anni, chiunque ne fosse a capo. Mi chiede se si sta chiudendo un’epoca? A mio avviso tutta l’Europa, Italia inclusa, dovrà affrontare cambiamenti, nuove sfide. Ne sono certo. Lo si capisce guardando la depressione dell’economia, i posti di lavoro che non ci sono. E la cosa riguarda anche gli Stati Uniti».
Per questo lei attribuisce grande importanza al Ttip, il Transatlantic trade and investment partnership? Il premier Letta ha detto di voler usare il semestre Ue a guida italiana per spingere su accordi comuni.
«Stiamo negoziando nuovi accordi commerciali che prevedano incentivi alla crescita, nuove assunzioni e investimenti. Sono vantaggi per tutti. Penso che l’Italia capisca che si tratta di accordi essenziali, come sono essenziali le riforme. Lo scambio è chiaro: l’America farà tutto quanto possibile per facilitare nuovi investimenti, l’Italia deve renderli attraenti per gli stranieri. L’Italia ha tali e tanti doni, dalla creatività,alla storia, dal design all’esperienza nell’industria delle macchine utensili. Il brand made in Italy è rispettato in tutto il mondo. Perché voi italiani non sfruttate la vostra buona reputazione per ricominciare a muovervi»?
L’immobilismo della burocrazia non ci aiuta. Quanto tempo le ci è voluto per ottenere i permessi necessari a restaurare Borgo Finocchieto, il paese disabitato e diroccato che lei ha comprato in Toscana?
«Per ristrutturare il borgo ci sono voluti 10 anni, ma non è stata una brutta esperienza. Ho imparato molto, per esempio ho conosciuto artigiani con competenze sconosciute in America. I tempi lunghi dipendono anche dalle regole che giustamente la regione Toscana impone a difesa del suo patrimonio. Volevano che le cose fossero fatte bene, tutto qui. A un certo punto, per esempio, avevo chiesto di poter usare il travertino. Mi hanno detto di no, perché non era un materiale che rientrava nella storia di Borgo Finocchieto. Avevano ragione».
Lei ha voluto comprare questo borgo in Toscana per mantenere un legame con le radici italiane. I suoi nonni erano friulani, il cognome di famiglia era Filippi poi diventato Philips.
«All’epoca dissero a mio nonno che era meglio anglicizzarlo. Il mio legame con l’Italia è fortissimo, con mia moglie Linda siamo venuti qui decine di volte. Quando si è discusso della mia nomina ad ambasciatore l’ho subito messo in chiaro: non volevo diventare ambasciatore a tutti i costi. Mi interessava questo ruolo in Italia».
Come ambasciatore è preoccupato dall’attivismo della Russia sul mercato italiano? Putin è appena stato in visita ufficiale in Italia. Avete un concorrente temibile, ora.
«Anche l’America fa business con la Russia. Gli investimenti sono sempre benvenuti».
Come avvocato lei ha rispolverato una legge che, proteggendo i soggetti disposti a rivelare le frodi ai danni dei contribuenti, ha fatto recuperare al governo diversi miliardi di dollari. È un metodo anticorruzione efficace, ma come è riuscito a battere le lobby?
«Uno dei punti di forza della nostra azione è stato lavorare in modo bipartisan con repubblicani e democratici. E non essere a priori “contro” uno specifico settore industriale. Nessuno poteva prevedere a chi avremmo fatto causa. Quando lo scoprivano, ormai era troppo tardi».
Tornando alla politica italiana. Dicono che lei sia molto amico di Matteo Renzi. Cosa pensa del nuovo segretario del Pd?
«L’ho conosciuto quattro anni fa. Sono associato al National Geographic che stava occupandosi di un dipinto che è a Firenze ed è attribuito a Leonardo, “La battaglia di Anghiari”. Matteo Renzi è una persona piena di energia, ma ho conosciuto altri italiani dinamici, e non sono solo politici. Com’è noto, il presidente Obama è rimasto molto colpito dal premier Enrico Letta».
Come si vive con una moglie che è una giornalista di successo?
«Abbiamo sempre lavorato molto, ma forse il periodo in cui ci siamo visti meno è stato quello della campagna elettorale per il presidente Barack Obama. Eravamo tutti e due in giro per il Paese, magari nella stessa città ma senza riuscire a vederci. È stato divertente. Una volta, a New York, lei era con il presidente per un concerto di Bruce Springsteen e anch’io ero là. Ci siamo salutati da lontano».
Immagino sia un sostenitore delle pari opportunità.
«Per forza. A parte le ragioni familiari, ho una moglie che lavora e una figlia medico, anche la mia partner dello studio legale Philips & Cohen è una donna. Con la presidenza Obama molti ruoli chiave sono andati alle donne. La ragione è semplice: spesso lavorano meglio degli uomini».
Lo ricordi nei suoi incontri italiani, ambasciatore. Non tutti, in Italia, l’hanno ancora capito.