Sara Bennewitz, Affari & Finanza - La Repubblica 2/12/2013, 2 dicembre 2013
RUFFINI, MR MONCLER IN PIAZZA AFFARI PER TRASFORMARE LE PIUME IN ORO
Dai piumini di alta quota alle giacche di alta gamma, da Grenoble per gli sciatori a Piazza Affari per gli investitori, dal fallimento della Fin.Part a un’azienda globale campione di redditività. Tutto questo in 10 anni sotto la regia di Remo Ruffini, che con l’inventore del marchio Moncler, il francese Renè Ramillon, ha in comune solo le iniziali. Lui che a metà degli anni ‘80 ha creato da zero la New England, da buon imprenditore comasco il Moncler azzurro ce l’aveva. E chi lo conosce fa notare che Remo è uno di quelli che “ha sempre caldo”, come a dire che quel giubbotto era soprattutto una moda. L’idea di un marchio connotato fortemente da un prodotto, come è successo alla Jeep che ha dato vita a un nuovo tipo di macchina, o all’Ipod che ha reinventato il walkman, era ed è sempre stato il suo obiettivo. «Chi dice Moncler dice piumino e chi dice piumino dice Moncler», questo è il suo motto, e attorno al piumino Ruffini ha costruito un’azienda che quest’anno dovrebbe fatturare circa 590 milioni e generarne un centinaio di profitti, il che significa una marginalità di lusso dato che ogni euro di ricavi si traduce in 16 centesimi di utile. «Il segreto del nostro successo è quello di restare fedeli al nostro Dna», spiega Ruffini. «Quest’azienda ha inventato i piumini dai sacchi a pelo, noi abbiamo cercato di fare giubbotti che potevano incontrare i gusti e le esigenze del ragazzino che va sullo snowboard,
ma anche della signora che esce la sera per andare alla Scala». In Moncler vengono utilizzate 130 milioni di tonnellate di piume ogni anno, una cifra che è perfino difficile da immaginare. Certo in questi dieci anni, non sempre è stato facile e non sempre il risultato è stato tangibile. Mr. Moncler ha inoltre un carattere irrequieto, ma è anche uno che ama ascoltare, che si guarda intorno che è sempre alla ricerca di nuovi stimoli e che non è mai soddisfatto. «A volte mi sembrava di lavorare tanto senza venirne a capo - confessa - mi ricordo un sabato che stavo lavorando ed ero giù di morale, ho deciso di fare una pausa e di andare a prendere i miei figli a scuola. Al suono della campanella sono usciti trecento ragazzini di corsa e da questa piccola folla ho visto spuntare quattro o cinque delle nostre giacche. E mi sono detto: vedi che funziona ». Ora i figli sono diventati grandi e vivono a Londra, Romeo il più giovane sta ancora studiando, Pietro invece si sta per laureare e vorrebbe cominciare a lavorare in finanza. Ruffini, che ha fatto ragioneria, la parte finanziaria della sua impresa l’ha sempre delegata ad altri. E questo è uno degli aspetti che è piaciuto ai suoi investitori come i private equity di Carlyle (che è entrato nel gruppo nel 2008), Eurazeo (2011) e della finanziaria Mittel. Perché Mr. Moncler, pur essendo un imprenditore della moda si fa consigliare, lascia spazio agli altri e conosce i suoi limiti tanto quanto le sue potenzialità. Così, in vista del collocamento in Borsa, l’azienda ha ingaggiato come direttore finanziario Luciano Santel, uomo di conti che dalla Luxottica è passato alla Geox prima dello sbarco in Borsa, e di lì se ne è andato quando la strategia del gruppo di Montebelluna stava virando verso obiettivi diversi e forse troppo ambiziosi. Molti investitori si ricordano di Santel come il regista del successo finanziario dell’Ipo di Geox, e sono stati felici di rincontrarlo in questi giorni durante il roadshow di Moncler. Ruffini, inoltre, non è l’imprenditore della moda che ha sempre la matita in mano, ma è quello che delega ai suoi collaboratori, per poi selezionare i progetti o le “capsule” che poi diventeranno prototipi e collezioni. Oltre al prodotto, si occupa anche della comunicazione a tuttotondo, dalle vetrine alle campagne pubblicitarie. Come quella di Bruce Weber, che da anni fotografa cani e attimi di vita straordinari come lo sbarco sulla Luna, dove i piumini non ci sono ma il marchio Moncler salta agli occhi. E il salto dimensionale l’azienda l’ha fatto quando ha iniziato ad aprire negozi in tutto il mondo: il primo punto vendita della gestione Ruffini è stato inaugurato nel 2007 a Parigi, poi l’azienda è andata per gradi accelerando sempre più tanto che a settembre il gruppo aveva 98 negozi a gestione diretta dislocati in tutto il mondo e nelle principali capitali e nelle località sciistiche da Aspen a St. Moritz. «Ho sempre spinto per essere globali e non per vendere di più, ma per attingere e essere in connessione con più culture », dice l’imprenditore. «Mi ricordo un giorno all’aeroporto di Shanghai, in fila per i taxi ho visto due cinesi con i miei piumini e mi sono detto: ci siamo. Poi due anni dopo sempre in Cina ho visto le nostre giacche copiate insieme alle false borse di Vuitton e ho pensato: abbiamo un problema». Rischi e opportunità dell’essere famoso in tutti i mercati, persino in alcuni difficili da controllare come quello cinese. Ora la sfida allarga i suoi confini con il collocamento in Borsa. In sede di Ipo l’azienda ha riservato un decimo agli investitori nipponici, perché il Giappone è il secondo mercato dopo l’Italia per Moncler. «Ho cominciato il roadshow a Ginevra, ma ora che sono a Londra è già più difficile», confessa Ruffini. «Ho scelto di non cambiare atteggiamento nemmeno con i possibili investitori istituzionali, li guardo negli occhi, gli spiego il progetto e dico loro che se quello che vanno cercando è una crescita esponenziale, non facciamo per loro, e se il loro orizzonte di investimento è di breve termine, forse non è il caso che acquistino azioni Moncler. I miei investitori voglio continuare a guardarli negli occhi anche dopo il collocamento in Borsa». Ma oltre le parole, gli investitori guardano ai fatti. Perché Ruffini nel roadshow del 2011, che poi non si è concluso con il collocamento, aveva fatto una serie di promesse che a distanza di due anni non solo ha rispettato, ma ha addirittura superato. E questo lo rende credibile, anche se alla fine con il mercato non si è ancora misurato. Un altro punto a suo favore, è che Moncler non è mai stata un’azienda patronimica del lusso che diventa pubblica, come hanno fatto Tod’s e Brunello Cucinelli. Fin dall’inizio Ruffini ha sempre gestito il gruppo insieme a un condominio di soci importanti, e quindi con la consapevolezza che non era solo il suo interesse a essere messo in gioco. E questo, a detta dei fondi esteri, è la migliore garanzia che il passaggio da azienda privata a azienda quotata, sia un atterraggio morbido. «Dopo il collocamento io vorrei che non cambiasse niente in Moncler - ammette Ruffini - la migliore garanzia per l’azienda è continuare a fare quello che sappiamo fare, restare fedeli al nostro dna e ai nostri consumatori. E questa è anche la ricetta migliore per i nostri investitori, piccoli o grandi che siano». Il gruppo non vuole spingere sui ricavi, ma rimanere focalizzato sui margini, curare la distribuzione e puntare sempre più sui monomarca. E a chi fa notare a Ruffini che tre quarti del fatturato è realizzato nella stagione invernale, l’imprenditore risponde che la tendenza non cambierà. «Non possiamo metterci a fare costumi - ribatte - si può declinare il marchio su altri prodotti affini come la maglieria, ma non sradicare le sue radici ». E così prima di Natale, Piazza Affari si scalderà grazie alla quotazione di Moncler: un gruppo che è stato valutato tra 2,18 e 2,55 miliardi e nonostante il prezzo corrisponda a un multiplo di 26-31 volte gli utili 2012, gli investitori si sono già messi in fila per sottoscrivere l’Ipo, tanto che la domanda ha già ampiamente superato l’offerta nei primi due giorni del collocamento. Ma c’è di più perché con l’anno nuovo, la società potrebbe entrare a far parte delle quaranta aziende principali che compongono l’indice Ftse-Mib. Una bella soddisfazione, per Ruffini che era entrato in Fin.Part nel 1999 come direttore creativo del marchio Pepper, e poi dopo il crac della holding della moda, era tornato a fare l’imprenditore rilevando il marchio Moncler nel 2003. E ora che ha compiuto 52 anni l’imprenditore rischia di diventare quasi miliardario, perché la sua quota del 32% nel collocamento potrebbe valere tra 700 e 800 milioni.