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 2013  dicembre 02 Lunedì calendario

TUTTO MUGHINI IN 51 SFUMATURE

«Trenta e più anni fa avrei chiesto a un eventuale commensale se preferiva quelli di destra o quelli di sinistra, e il Vietnam e la Cina e la caduta del muro di Berlino…». Ma quei tempi sono remoti: oggi «ci toccano non più le contese tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi, bensì le dirette streaming del marzo 2013 in cui il segretario del Pd — l’incarico che fu di Palmiro Togliatti — non aveva più da fronteggiare Giuseppe Stalin ma due ragazzotti del Movimento 5 Stelle, ai quali tutt’al più avrebbe dovuto dire di andare a spegnere la luce prima di abbandonare la sala. È la politica del terzo millennio, bellezza». Oggi il parametro con cui Giampiero Mughini invita e giudica i suoi ospiti è molto cambiato: «E invece se all’eventuale mio commensale piace o no Kate Moss, e perché gli piace, e con quali parole racconta i suoi zigomi e tutto il resto, quello sì mi aiuta a capire che tipo ho di fronte».
Va da sé che Kate Moss a Mughini piace moltissimo, quasi come la Brigitte Bardot cui dedicò un libro bello e devoto: «Lì dove la fine del Novecento si frange contro lo sciagurato debutto del secolo che stiamo vivendo, alla latitudine malcerta tra i due millenni, è come appostata sovrana una donna eccitante e inafferrabile, i cui occhi avvampano continuamente sui giornali di tutto il mondo a raccontarci che vivere è doloroso ma ne vale la pena. “Oh!, come provvista di occhi!” avrebbe scritto di lei il nostro Carlo Emilio Gadda. Una donna che zigzaga tra fragilità e impudenza, tra l’esibizionismo più smaccato e i silenzi più accurati. E meno lei dice a confermare o smentire quanto sia intenso il demone femminile di cui trabocca, e da cui ciascuno di noi contemporanei viene minacciato o esaltato, meglio è. “Non dare mai spiegazioni” le suggerì il suo primo lover, Johnny Depp». E ammesso, aggiunge Mughini, che le spiegazioni tra uomo e donna servano a qualcosa: «In uno degli ultimissimi romanzi di Philip Roth, una mattina e all’improvviso una lei quarantenne dice a un lui sessantacinquenne che è finita. “Finito cosa?” lui risponde. “Questo”, e altre spiegazioni tra loro non ce ne saranno e non servono. Tra loro due e d’ora in poi l’unica verità possibile è il silenzio».
Dell’ultima opera di Mughini, Una casa romana racconta. Libri donne amici perduti, le tracce di una vita , appena pubblicato da Bompiani, non si può teorizzare; si deve narrare. Il filo narrativo è tenuto insieme da un luogo, il villino alle pendici di Monteverde dove l’autore abita da dieci anni. In realtà il volume è un flusso di coscienza che parte dalla tragedia degli ebrei romani e conduce nella biblioteca, da cui Mughini sceglie a beneficio del lettore «i 51 libri italiani più belli degli ultimi cento anni», da Italo Svevo a Maurizio Cattelan; dove il numero 51 non è casuale ma polemico con «quel cinquanta sfumature di grigio che funge da titolo di un recente libraccio che nella mia biblioteca non metterà mai piede in qualsivoglia edizione».
Le pagine sulla razzia del 16 ottobre 1943 — e in particolare sulla sorte della famiglia Sabatello, padre madre e tre figli, che abitava a pochi metri dalla «casa romana» che dà il titolo al libro — sono scabre e bellissime. Come lo sono i passaggi subito successivi, in cui l’autore accenna a due grandi dolori della sua vita, l’addio a una donna che meritava di essere amata e l’addio detto tanti anni prima alla madre, di cui sono raccontate con brevi tratti fenogliani la malattia e la morte. Ma Mughini è talmente bravo che riesce ad appassionare pure a un argomento che chi scrive considera un binario morto della storia, vale a dire la Bologna del 1977, di radio Alice, di Bifo; beninteso, a interessare l’autore non sono le dispute ideologiche ma le novità di linguaggio, di comunicazione, di grafica che germinano alla fine degli Anni Settanta, in particolare con i disegni di Stefano Tamburini e Andrea Pazienza, due giovani vite uccise dall’eroina (mentre Francesca Alinovi veniva accoltellata a morte da un amante forse rintracciato forse rimasto misterioso).
Ogni tanto affiora uno degli oggetti preziosi che compongono quello che i suoi amici chiamano il «Muggenheim»; perché la «casa romana» è anche un museo che, com’è scritto sulla parete d’ingresso, «onora Gaetano Pesce, Leonardo Sciascia, Ico Parisi, Giuseppe Prezzolini, Bruno Munari, Andrea Pazienza, Alessandro Mendini, Beppe Fenoglio, Giorgio Caproni». E il flusso di coscienza si conclude con il ricordo di un’amica lontana, Maria Giulia Minetti detta Gella, un tempo carissima e poi perduta sull’onda della polemica accesa dal libro di Mughini dell’87, Compagni addio . E se in passato altre pagine dell’autore parevano un grido di richiamo alla sua generazione, oggi l’atmosfera della «casa romana» è quella di una orgogliosa solitudine. «Quando è morta Gella, è apparso sulla Repubblica un ricordo di noi tutti che le eravamo stati amici e colleghi. Nomi tutti che nel frattempo mi sono divenuti remoti, e io a loro remotissimo immagino. Era un altro millennio, un altro mestiere e nessuno di noi ha più trent’anni, e s’è fatta dannata la sproporzione tra l’entità dei ricordi e l’entità del presente che stiamo vivendo, anche se oggi più nessuno toglie il saluto a chi scrive un libro irriguardoso nei confronti della sinistra e delle sue sciccherie. Quel che invece è capitato a me, di essere marchiato da quel libro, dove avevo ragione dalla a alla zeta, più che se fossi stato condannato per una qualche frode fiscale».