Michele Gravino, La Repubblica 2/12/2013, 2 dicembre 2013
“IL MIO GIRO DEL MONDO A PIEDI DALL’ETIOPIA ALLA TERRA DEL FUOCO”
Trentatremila chilometri, quattro continenti, sette anni in viaggio. A piedi. Per un totale di 30 milioni di passi, più o meno. Paul Salopek — 51 anni, giornalista e scrittore, ex inviato di guerra e corrispondente dall’Africa, due premi Pulitzer vinti — sta girando il mondo sulle orme (e con i mezzi) dei nostri antenati, i primi uomini che circa 60 mila anni fa lasciarono l’Africa e in poche migliaia di anni riuscirono a colonizzare l’intero pianeta. È partito a gennaio da Herto Bouri, un villaggio nel cuore dell’altopiano etiopico dove sono stati trovati i resti fossili di una delle più antiche specie di ominidi. Ha attraversato il deserto della Dancalia in compagnia di una guida e di un paio di dromedari, fino a Gibuti, dove si è imbarcato per l’Arabia Saudita. Proseguirà per il Medio Oriente, attraverserà l’Asia centrale, risalirà dalla Cina fino alla Russia siberiana, passerà in nave lo Stretto di Bering, sbarcherà in Alaska e scenderà lungo tutta la costa occidentale del continente americano, sempre camminando, «a cinque chilometri l’ora, la velocità per cui è programmato il nostro corpo», dice. La meta finale è la Terra del Fuoco, il punto più lontano raggiunto dall’uomo nella sua colonizzazione delle terre emerse. Se tutto va secondo i programmi, ci arriverà nel 2020.
Oltre a un cambio d’abito, qualche medicina, cibo e acqua, carta e matita, Salopek porta nello zaino un telefono satellitare e un computer portatile. Aggiorna costantemente il suo blog e ogni tanto si affaccia su twitter. Ma alla velocità con cui le informazioni si diffondono nell’era della rete contrappone il suo slow journalism, una filosofia che per sua stessa ammissione ricorda quella di Slow Food. «La sintetizzerei in una parola: qualità», spiega, raggiunto al telefono durante una pausa del suo viaggio. «Qualità nel cibo è un pomodoro cresciuto al sole invece che sottoposto a trattamenti chimici che accelerano la maturazione. Qualità nella scrittura significa poter approfondire, fare collegamenti, scoprire che cosa c’è dietro un titolo di giornale o una notizia riassunta in 30 secondi da un servizio in tv».
Dove si trova adesso?
«Sono in Giordania, ho appena attraversato il confine con l’Arabia Saudita. Finora ho percorso più o meno 2.000 chilometri».
Come si sente fisicamente? I piedi?
«Sto molto bene, non ho avuto grandi problemi. È tutta la vita che cammino, quindi direi che anche i piedi sono abituati».
Quante paia di scarpe ha consumato?
«Uno solo, ma ormai è ridotto a brandelli. Dovrò comprarmene uno nuovo».
Com’è la sua giornata?
«Finora ho viaggiato soprattutto in terreni desertici, tra Etiopia e Penisola arabica. Abbiamo vissuto un po’ come i beduini di 100, 200 anni fa: sveglia all’alba, colazione con un sorso di tè e un pezzo di pane e formaggio, poi camminare fino al tramonto, accamparsi per la notte, eccetera.
Man mano che mi avvicino al nord del mondo il paesaggio cambierà, sarà dominato dalle automobili, ci sarà più gente, e certo non potrò dormire all’aperto. Dovrò chiedere ospitalità
in giro, cambierà anche il mio modo di scrivere».
Viaggia da solo o in compagnia?
«Cercherò di essere sempre accompagnato. Amo la natura, amo stare all’aria aperta, ma questo progetto riguarda soprattutto la gente, gli esseri umani. Finora ho camminato con pastori nomadi, giornalisti disoccupati, lavoratori dei pozzi di petrolio in vacanza, soldati in congedo: tutte queste persone sono una finestra sulla comunità in cui vivono. Se viaggiassi da solo diventerebbe molto noioso: rischierei di raccontare solo i pensieri che mi vengono in testa».
Si ferma ogni tanto?
«Certo, per approfondire meglio una storia, o per riposarmi, raccogliere informazioni, scrivere. Sono stato fermo in città per tutto il mese di Ramadan: tutti digiunavano, me compreso, e andare in giro nel deserto a digiuno non è molto prudente ».
C’è un incontro che l’ha colpita più degli altri?
«Per attraversare il Mar Rosso da Gibuti all’Arabia Saudita, mi sono fatto dare un passaggio da una nave cammelliera. Portava 9.000 dromedari al macello, quindi era già un viaggio malinconico. In più, gli ufficiali della nave erano tutti siriani, lontani dal loro paese in guerra. Parlando con loro ho capito che cosa significa essere senza patria, non avere più un posto dove tornare».
Il suo articolo per National Geographic
[è la storia di copertina del numero di dicembre, ndr] comincia con il suo incontro con un pastore etiope che le chiede: “Sei pazzo?”. Quante volte si è posto la stessa domanda in questi mesi?
«È una domanda che mi faccio da un sacco di tempo, quindi questo viaggio non cambia molto le cose. Voglio chiarire però che non sono partito per portare a termine un’impresa sportiva, non voglio entrare nel Guinness dei Primati. Sono qui perché penso che andando più piano il mio lavoro migliorerà, avrò più storie significative da raccontare. Se smettessi di trovarlo interessante, potrei fermarmi anche domani. Ma finora è stato interessantissimo».