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 2013  dicembre 02 Lunedì calendario

C’ERA UN TEMPO UNA GRANDE INDUSTRIA

ELETTRICA –

Nel 1999, in attuazione di una specifica direttiva comunitaria sulla liberalizzazione nei settori del gas e dell’elettricità, l’Italia ha demolito una delle più grandi aziende energetiche mondiali imponendo all’Enel di non disporre di oltre il 50% dell’elettricità italiana. La soluzione adottata poteva essere accettabile, a condizione che i governi avessero mantenuto la programmazione generale del settore. Invece, nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione anche i settori energetici sono stati trasferiti nelle competenze concorrenti Stato — Regione.
L’Enel vendette quasi la metà del proprio parco di centrali elettriche e per fare cassa a favore dello Stato, il titolo venne quotato ad 8 euro (oggi oscilla poco sopra 3 euro). In generale la crisi del settore elettrico che utilizza gas ed olio combustibile deriva sia dal calo dei consumi dovuto alle difficoltà economiche sia da ragioni di tipo diverso.
— Sull’onda dell’errata previsione di alti consumi e con la costante speranza di interventi statali in caso di difficoltà, tra il 2004 ed il 2009 sono state costruite, dai diversi operatori presenti in Italia e dalla stessa Enel, decine di nuove centrali termoelettriche a gas (ciclo combinato ad alto rendimento) con investimenti pari a circa 28 miliardi di euro; — inoltre, a partire dal 2008, in maniera del tutto incoerente, lo Stato ha iniziato ad incentivare la allocazione di impianti a fonti rinnovabili (fotovoltaico ed eolico), che hanno priorità sulla cessione in rete dell’energia elettrica da essi prodotta, facendo realizzare oltre 25.000 MW di potenza nuova rinnovabile, oltre ad altrettanta potenza rinnovabile già esistente (idroelettrico e geotermico) .
Questa situazione ha provocato i seguenti fatti: — l’Italia nei momenti di maggiore richiesta ha bisogno di una potenza di circa 55.000 MW, mentre la potenza complessiva installata è pari a 130.000 MW. In condizioni ordinarie la potenza massima necessaria al Paese è pari a circa 40.000 MW; — circa il 15% dll’energia elettrica necessaria viene importata da Francia (di origine nucleare a più basso costo), Austria e Svizzera.
— la priorità per le fonti rinnovabili (che coprono ormai oltre il 30% della domanda elettrica italiana) ha spinto alla chiusura, per mancanza di domanda elettrica, le più recenti centrali a ciclo combinato a gas, causando problemi occupazionali e criticità verso le banche che avevano finanziato gli investimenti sulle centrali a gas; — infine, poiché le fonti rinnovabili sono lautamente incentivate il loro funzionamento si ripercuote direttamente sui costi altissimi delle bollette elettriche. Il paradosso è che dobbiamo tener ferme le centrali che producono elettricità a basso costo mentre facciamo funzionare gli impianti assai più costosi (fotovoltaico, ecc).
La situazione più drammatica nel parco termoelettrico italiano si riscontra nel settore della produzione di elettricità con le centrali ad olio ed a gas, oggi ferme. Quindi doppia beffa: centrali a gas e olio anche definitivamente ferme, ricavi da fotovoltaico bassissimi. Ne derivano gravi problemi di occupazione anche se temperati da un accordo sindacale sulle spalle dello Stato che attraverso la legge Fornero coprirà l’uscita di 5000 dipendenti anziani e l’assunzione di circa 2000 giovani. Ancor più drammatico è il problema che si pone sia per Enel che per tante altre aziende elettriche con centrali ad olio ed a gas (grandi e piccole) che rischiano di rimanere definitivamente ferme in siti perfettamente infrastrutturati (reti elettriche, porti, depositi, strade, impianti trattamento acque, ecc). Invece di abbandonarli e determinare crescente inquinamento, non sarebbe il caso, come è stato fatto in Germania, di valutare il loro riutilizzo e trasformazione, creando investimenti e nuova occupazione? Altrimenti fra 10 anni dovremmo sopportare i costi delle bonifiche di questi siti, naturalmente a carico dei cittadini. Non è strabiliante che tutto ciò passi quasi sotto silenzio?