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 2013  dicembre 02 Lunedì calendario

IL RICATTO DI MOSCA CHE TIENE KIEV FUORI DALLA UE


Angela Merkel l’osserva sconsolata. Il presidente ucraino non ha bisogno di aggiungere parole per spiegare alla cancelliera tedesca come mai abbia rinviato senza data la firma dell’accordo di associazione con l’Unione Europea, piegandosi alle pressioni di Putin. Le casse di Kiev sono vuote e Bruxelles non può rimpinguarle. Mosca sì.
Non ci stupiremmo se nei prossimi mesi la Federazione Russa offrisse all’Ucraina un prestito di salvataggio e forse anche uno sconto sul prezzo del gas, per evitarne la bancarotta. Non per generosità, né per un moto di simpatia di Putin nei confronti del suo omologo ucraino, verso il quale anzi non perde occasione di ostentare disprezzo. Molto più banalmente, Mosca tiene Kiev sotto scacco con l’arma economica, specie energetica, per vincolarla alla sua sfera d’influenza geopolitica. Anche a costo di destabilizzare il suo massimo vicino occidentale, dove centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in questi giorni per denunciare il dietrofront di Yanukovich e pretenderne le dimissioni.
Questa Ucraina invoca l’Europa. Non tanto per slancio europeista, ma come alternativa a Mosca. Europeismo, nazionalismo ucraino e russofobia sono oggi sinonimi nelle piazze di Kiev, come lo furono quasi dieci anni fa, ai tempi della “rivoluzione arancione”, presto abortita. Gli slogan che inneggiano ai «nostri eroi» e annunciano «morte ai russi» non appartengono al lessico brussellese, ma rivelano la determinazione dei nazionalisti ucraini, per i quali Stalin e Putin sono due facce della stessa medaglia coloniale.
Mosca ha vinto questo round con l’Unione Europea. Ma ricorrendo ancora una volta alle maniere forti, al ricatto economico, rischia di pagare un prezzo alto. Putin sta infatti eccitando l’opposizione antirussa proprio nel paese chiave dell’operazione geopolitica che lo ossessiona da quando, nel 2000, è assurto a leader quasi incontrastato della Federazione Russa: recuperare all’influenza di Mosca lo spazio ex sovietico. O almeno le sue terre più strategiche. Per formare il quinto impero russo, dopo quelli di Kiev (circa 850-1240), di Mosca (circa 1400-1605), dei Romanov (1613-1917) e dei bolscevichi (1918-1991). Un impero informale, di cui l’Unione doganale con Bielorussia e Kazakistan — alla quale potrebbe aderire anche l’Ucraina, completando il voltafaccia anti-occidentale — s’intende nucleo (ri) fondatore.
Questa confederazione del “mondo russo” non avrebbe senso senza Kiev. Per impulsi storico- culturali: il riferimento è alla Rus’ di Kiev, battezzata culla della Russia moderna, di cui nel luglio scorso Putin ha concelebrato, insieme ai vertici della Chiesa ortodossa, i 1025 anni dalla conversione al cristianesimo, sotto l’eloquente titolo “I valori slavo-ortodossi, base della scelta di civiltà dell’Ucraina”. Per ragioni economiche, stanti i fortissimi legami russo-ucraini in tutti i settori della produzione e del commercio, ereditati dalle precedenti epoche imperiali, in specie dal settantennio sovietico. E per la priorità geostrategica che nega all’Ucraina la prospettiva atlantica. Tanto che nel porto di Sebastopoli è sempre all’ancora la flotta russa del Mar Nero.
Nei laboratori strategici di Mosca lo slittamento dell’Ucraina nel campo occidentale è paragonato a un’esplosione nucleare. A chi non volesse intendere, si ricorda che cosa accadde nell’agosto 2008 alla Georgia, che aveva provocato la Russia agitandole davanti agli occhi il drappo rosso dell’integrazione atlantica. I leader americani ed europei non hanno dimenticato, tanto che in alcune cancellerie della “vecchia Europa” il rifiuto di Yanukovich è stato accolto con appena velato sollievo. Per chi largamente dipende dal gas russo importato via Ucraina, una nuova crisi fra Mosca e Kiev che potrebbe sfociare nella destabilizzazione di entrambe è il peggiore degli scenari possibili.
Polacchi, baltici e altri paesi dell’Europa centro- orientale non sono affatto di questa idea, perché considerano la Russia geneticamente inaffidabile e minacciosa. Aggiogare l’Ucraina al campo occidentale, via Unione Europea e poi Nato, è il loro obiettivo strategico, che immaginano — forse ottimisticamente — condiviso dalla Casa Bianca. Come in un gioco a somma zero, ciò che per Mosca è vitale trattenere entro il proprio cortile di casa, per i suoi ex satelliti è altrettanto essenziale trasferire nella famiglia occidentale. La notizia della fine della guerra fredda, annunciata più di vent’anni fa, si conferma alquanto esagerata.
E gli ucraini? Restano divisi. Un recente sondaggio afferma che il 45% dei cittadini ambisce a integrarsi nell’Ue, mentre il 14% vorrebbe aderire all’Unione doganale guidata da Mosca. La classe politica, di governo e di opposizione, si segnala per la profonda corruzione — che a suo tempo contribuì a offuscare la fama dei leader della “rivoluzione arancione” — e non pare offrire alternative credibili al sempre più impopolare Yanukovich. Di fatto, le leve del potere restano nelle mani degli oligarchi che hanno lucrato sul crollo dell’Urss.
Quali che siano i rapporti di forza politici, un discrimine culturale, linguistico ed etnico divide l’Ucraina in tre parti: quella ucrainofona centrata su Leopoli, l’antica capitale della Galizia, segnata dall’impronta storica polacca e asburgica; la più ampia regione di mezzo, attorno a Kiev, dove ucrainofoni e russofoni, filo-occidentali e filo-russi convivono ma non si mescolano; e le province orientali, con la Crimea, prevalentemente russofone e sensibili agli umori di Mosca. Terre compresse a lungo nel contenitore imperiale, ma che una volta emancipate dal controllo diretto del Cremlino non hanno generato uno Stato nazionale. E difficilmente lo faranno, in questo clima da resa dei conti. Non è impossibile che il braccio di ferro sull’Ucraina finisca per produrne più di una. O condanni questo grande paese — il doppio dell’Italia, con 46 milioni di abitanti — a un’instabilità permanente, vittima delle politiche predatorie dei suoi dirigenti e delle ingerenze di vicini interessati solo a coltivarvi i propri interessi.