Marco Zatterin , La Stampa 2/12/2013, 2 dicembre 2013
L’OLANDA BATTE L’ITALIA NELLA GUERRA DEI POMODORI
Ti siedi a tavola, parli di Olanda e pensi al formaggio, alle aringhe, magari alle cozze della Zelanda, e ci vuole fantasia per immaginare la potenza dei pomodorini freschi di serra curati al pallido sole delle pianure sotto il livello del mare nel regno Orange, e poi venduti in ogni dove dai loro sudditi commercianti. Occorre fantasia e pure serenità per accettare una sconfitta bruciante, quella che subisce l’Italia, rinomata culla del «Solanum lycopersicum» e delle sue varianti che sono alla base della dieta mediterranea, quando scopri che i re dell’export di pomodori vivono nei Paesi Bassi e non da noi, che su pachini e San Marzano abbiamo costruito molta storia e qualche leggenda.
I numeri che arrivano da Amsterdam raccontano che nel 2012 l’export olandese di pomodori è stato il primo a livello mondiale, ha sfiorato gli 1,8 miliardi, cento milioni in più rispetto ai rivali di sempre messicani. Il terzo posto se lo sono accaparrato gli spagnoli, poi turchi e francesi. Richiesta di cifre compatibili sull’Italia, a Tomatoworld - il parco a tema per la coltivazione in rosso di Westland - ammettono di non essersi preoccupati di andare oltre la quinta piazza. «E’ segno che facciamo tutto come si deve», esulta il sottosegretario all’Agricoltura, Sharon Dijksma, memore della polemica di qualche anno fa coi tedeschi, che accusarono gli olandesi di «vendere bombe d’acqua».
«Per capire i sapori ci vuole gusto», amano dire gli agricoltori. In effetti una buona parte della produzione dell’Europa centro settentrionale può comunicare ai palati mediterranei un senso di solitudine gastronomica. Se i nostri cugini sapessero, e potessero, ecco che per la rotondità dell’intonazione del sapore dei prodotti dello Stivale ci sarebbero opportunità immense di reddito. Che latitano, se non laddove si pratica l’eccellenza. «E’ tutta questione di organizzazione», confessa Paolo De Castro, ex ministro dell’agricoltura, ora presidente della commissione verde dell’Europarlamento. E’ la solita storia, non si fa sistema. Succede coi pomodori, capita coi carciofi, «per i quali non c’è nemmeno un vero sistema cooperativo». Quindi con gli agrumi: negli Anni Ottanta il 70% del mercato tedesco era in mani italiane, oggi siamo al 5%, sebbene la domanda ci sia, eccome. Semplicemente non ci arriviamo. «La qualità esiste,è necessaria - assicura De Castro - ma non basta per far ricca l’industria a livello complessivo».
Numeri a confronto. Il terreno coltivato a pomodori in Olanda è di 1.700 ettari su un totale 4.890 ettari di vegetali cresciuti in serra; le unità produttive sono 383; la produzione ortofrutticola ha un valore complessivo di 2,7 miliardi. «Si vede che sono intermediari, comprano e rivendono, dall’Italia come dalla Spagna», insiste De Castro, del resto è l’unico modo per far tornare i conti. Da noi gli ettari su cui si coltivano pomodori da mensa sono 16.325; quelli per il prodotto da trasformazione, conserve e altro, superano i 75 mila. Non dovrebbe esserci partita. E invece c’è.
Spiega una fonte agricola europea che le ragioni dell’export debole sono molte. La prima è la frammentazione delle unità produttive: operano troppi piccoli produttori che faticano a fare massa. La seconda è la complessità del sistema e di regole impregnate di bizantinismo. «Ci sono coltivatori di pachino che vanno sino a Fondi, in provincia di Latina, per ottenere l’omologazione del raccolto e poi tornano indietro». Costoso, in effetti. Come lo è l’aver puntato tanto sull’alta qualità e il chilometro zero, assicura: «Servono, ma non aiutano a fare reddito». Infine c’è il sommerso - «dati non li abbiamo, però non è gran cosa» -, mentre degli effetti delle Terre di Fuoco sulle coltivazioni tutti preferiscono non parlare.
Molto è cambiato senza che vi fosse reazione. Sostiene l’Osservatorio sulla «Dieta mediterranea» che trent’anni fa la Campania produceva 16 milioni di quintali di pomodoro l’anno e oggi non supera i 2-3. Ma anche qui l’immagine è doppia, perché le aziende big della regione lavorano ed esportano parecchio. Come quelle di Annibale Pancrazio, che vende all’estero l’85% di quello che produce - conserve, polpa, pelati, salsa - e spiega il miracolo olandese con una costatazione molto semplice: «Noi siamo un grande Paese che consuma una parte rilevante di quanto produce». E’ un buon punto.
Come quello sulla fisionomia delle coltivazioni, intensive in Olanda, estensive lungo la penisola. «Noi siamo il pomodoro del mondo», assicura Pancrazio, vicepresidente di Federalimentare con delega per la politica agricola comune. Pomodoro lavorato, però. «Se noi produciamo meno come accaduto quest’anno, il pianeta mangia meno - spiega -. I consumi sono costanti, cambia solo l’offerta». Ecco che almeno qui, l’Italia può fare assai, a patto che - sostiene l’imprenditore di Cava de’ Tirreni - si riesca a fermare la «fortissima» contraffazione, il vizio che hanno gli altri - americani, turchi e cinesi - di emettere il tricolore sulle loro conserve. Gli olandesi non hanno questo problema, smerciano il fresco, lo comprano e lo vendono con metodo nordico, arredando le insalate pallide delle brasserie francesi e nelle taverne tedesche, per dirne solo due. «Commercianti nati», ammette Pancrazio. Il segreto, alla fine, è tutto qui