Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 01 Domenica calendario

MA SENZA I CATTIVI NON C’È STORIA


Mancano tre minuti alla mezzanotte del 25 maggio 1984. Al detenuto Peter LaFontaine viene concessa la possibilità di rendere un’ultima dichiarazione prima che sia eseguita la sua condanna a morte per mezzo di iniezione letale. Davanti ai parenti delle vittime e al procuratore che ha ottenuto per lui la pena capitale, l’uomo pronuncia un’unica frase: «Non so chi credete di uccidere, ma non sono io».
Nel 1980, LaFontaine ha massacrato con ferocia inaudita due anziani coniugi nel corso di una rapina nella loro abitazione. Le prove contro di lui sono schiaccianti e la sua fedina è un crescendo di precedenti per violenza. Durante il processo, LaFontaine arriva a minacciare giudice, giuria e perfino il suo avvocato. Il tribunale impiega meno di una settimana per emettere una sentenza di condanna a morte, un record.
LaFontaine viene tradotto nel braccio della morte. E qui gli viene diagnosticato un tumore celebrale. Negli Usa il condannato alla pena capitale deve giungere al patibolo nelle condizioni di salute ottimali, poiché la legge richiede la consapevolezza del valore della punizione che sta per subire, in ossequio a una sorta di estremo — e paradossale — scopo educativo.
LaFontaine viene sottoposto a un delicato intervento chirurgico che gli salva la vita, ma la rimozione della massa tumorale produce un’amnesia. L’uomo non ricorda più nulla del passato, a cominciare dal crimine brutale per cui è stato condannato. Anzi, sostiene di non essere in grado di commettere simili atrocità. Oltre alla memoria, sembra sparita anche la sua indole violenta. Adesso è un uomo mite, dedito alla preghiera e alla lettura della Bibbia. Potrebbe sembrare una recita magistralmente architettata, ma neurologi e psichiatri si convincono che sia tutto reale e anche la macchina della verità gli dà ragione, per ben due volte. Peter LaFontaine sostiene, perciò, di essere innocente per un crimine commesso da un altro sé in passato. Il suo caso genera una domanda. Dove risiede la colpa? Nel corpo che ha compiuto le atrocità o nella coscienza delle stesse? Ed è possibile che l’operazione al cervello abbia rimosso, insieme al tumore e alla memoria, la parte malvagia dell’individuo?

Oggi le neuroscienze cercano di individuare «l’area del male» all’interno del cervello. Ammettono, cioè, l’esistenza di una sorta di predisposizione fisiologica e genetica ai comportamenti più aberranti. Perciò, forse un giorno basterà una mappa del Dna per stabilire se un individuo è buono o cattivo. O magari porteremo i nostri figli da un chirurgo per far rimuovere la parte cattiva del cervello come oggi li portiamo dal dentista per l’estrazione di un dente cariato.
Eppure la Natura sembrerebbe smentire l’origine biologica del male. L’immagine di una leonessa che aggredisce dei cuccioli di zebra ci induce a provare pietà per il più debole. Ma se con quella stessa carne la leonessa nutre i propri cuccioli, allora la valutazione muta radicalmente. Nel mondo animale il giudizio morale è sospeso, perché non esistono leoni vegetariani. E nel mondo umano? Secondo alcuni antropologi, l’unica distinzione possibile fra bene e male deriva dal fatto che solo quest’ultimo può essere dimostrato empiricamente, perché lascia riscontri evidenti dietro di sé — la scena di un crimine, per esempio. Il bene, invece, non si può provare. Infatti, come si fa a dimostrare che l’elemosina concessa al mendicante non è solo un modo per appagare il nostro bisogno di sentirci migliori degli altri, anche solo agli occhi di noi stessi? E che il sentimento che ci spinge è autentica filantropia e non superbia?
La contraddizione è più evidente nel momento in cui l’uomo si racconta. Perciò è alla letteratura che spetta l’ultima parola. E dal punto di vista letterario, il male è assolutamente indispensabile. Ogni scrittore conosce la lezione: il bene trionfa, ma è il cattivo che fa la storia. Il «Giuda necessario», che genera il conflitto e quindi l’urgenza della parola, del racconto.
Allora che sia il bene l’artificio, l’invenzione letteraria?

Dovremmo risalire al momento esatto dell’evoluzione umana in cui è stato stabilito per la prima volta che una cosa era giusta o sbagliata. Sappiamo che la preistoria cessa nel momento in cui nasce la scrittura, ma l’invenzione è strettamente legata all’esistenza di qualcosa da documentare. La funzione del male in questo processo è basilare.
Senza il male, l’umanità non avrebbe una Storia. Oppure questa si limiterebbe ancora a un piatto resoconto della realtà che ci circonda e non avremmo superato nell’evoluzione l’ominide che ritraeva la sua quotidianità sulle pareti di una caverna.
Il che equivarrebbe a dire che ci siamo evoluti grazie al male?
Man mano che avanza il nostro progresso, stabiliamo nuovi canoni per ripartire le cose giuste da quelle sbagliate. Tutto questo si riflette, inevitabilmente, nella letteratura di un’epoca. Rimanendo in America, un romanzo come A sangue freddo di Capote, per esempio, non sarebbe stato possibile prima del 1966. Nonostante le polemiche che suscitò quello sguardo opportunistico e voyeuristico sul male, che trasforma la cronaca in verità e non viceversa, in fondo è il prodotto di una società nata dal filmato dell’omicidio in diretta di Jfk. Le immagini di una testa che esplode colpita da un proiettile non vengono censurate, ma sono mandate e rimandate in onda in ossequio a un principio assoluto di libertà. Oggi l’America ha il suo primo presidente di colore, eppure evita di diffondere le foto del cadavere di Bin Laden per non turbare le coscienze. Perché, come muta la sensibilità riguardo al male, cambia anche il lessico. Alcune barriere semantiche vengono abbattute, altre erette.
L’attenzione che oggi in Italia rivolgiamo, per esempio, al femminicidio lo fa apparire come un crimine moderno. Abbiamo già dimenticato quando gli attribuivamo la definizione, quasi romantica, di «delitto passionale». Ma, senza accorgercene, stiamo ripetendo lo stesso errore. La parola femminicidio scalfisce appena la superficie del problema. Sembra più il frutto di una scelta ideologica. È più adatta a definire una statistica piuttosto che un comportamento spregevole e vigliacco. Toglie identità alle vittime che diventano «femmine uccise», appunto. Una categoria, una specie. Ma, soprattutto, è una parola che lascia impunito il colpevole. Avete notato che si discute di femminicidio, ma non si parla mai del «femminicida»? Quando invece, come deterrente, servirebbe una definizione marchiante, come pedofilo.
Escludendo i casi in cui ha un’origine patologica, il male ha radici culturali. L’unica arma per combatterlo è la parola. Perfino il togliere la vita a un altro essere umano, che è considerato universalmente il peggiore degli atti possibili, riceve una diversa considerazione se lo definiamo «eutanasia». Invece siamo ottenebrati dall’ansia di codificare il male o di attribuirgli un’origine biologica. Per assolverci.
Ma il male è solo un elemento della nostra natura sociale. Per smentire le neuroscienze, ma anche coloro che si illudono di imbrigliarlo nella morale, basterebbe una semplice riflessione. Se rimanesse un solo uomo sulla faccia della terra, potrebbe ancora provare rabbia, odio, rancore. Ma non sarebbe né buono né cattivo.