Michele Salvati, Corriere della Sera - La Lettura 1/12/2013, 1 dicembre 2013
ÉLITE INCAPACI , UNA FARSA ITALIANA OGGI FALLIREBBE ANCHE CAVOUR
Perché in Italia non è mai stato possibile un forte ricambio di governanti, forte ma non traumatico? E perché, quando un ricambio forte è avvenuto, negli anni Venti e poi negli anni Quaranta del secolo scorso, esso ha prodotto un mutamento traumatico di regime politico, dalla democrazia alla dittatura fascista e poi dalla dittatura alla democrazia? Queste sono le domande che Massimo Salvadori si poneva in un famoso saggio del 1994 (Storia d’Italia e crisi di regime ), proprio mentre era in corso un ricambio di ceti di governo sicuramente assai forte, e che però stava avvenendo senza una rottura del regime democratico. L’antica maledizione era forse scomparsa? Eravamo diventati una democrazia «normale», in cui un ceto politico, se la sua azione non soddisfa i cittadini, viene allontanato senza traumi dal governo e un altro messo al suo posto mediante pacifiche elezioni? A queste domande Salvadori risponde ora con una riedizione estesa e rielaborata del suo saggio, dopo che vent’anni di «Seconda Repubblica» gli hanno offerto abbondanti materiali per rispondere (Storia d’Italia, crisi di regime e crisi di sistema. 1861-2013 , il Mulino).
La risposta è negativa: no, l’antica maledizione non è scomparsa, ha solo cambiato forma. Oggi una fuoriuscita dal regime democratico non è pensabile e, di fatto, a partire dal 1994, un ricambio al governo di élite politiche in violento contrasto tra loro si è avverato più volte senza alcun mutamento di regime, anzi restando nei confini della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma resta il problema che esse rifiutano di riconoscersi come idonee a governare, che ognuna considera l’accesso al governo dell’élite avversaria come una sciagura per il Paese e non un evento normale in democrazia. Di conseguenza esse cercano di impedire che il ricambio avvenga, da un lato esasperando i toni ideologici dello scontro, dall’altro promuovendo alleanze e compromessi i quali, in caso di successo elettorale, impediranno loro di governare in modo efficace. La mancanza di efficacia e di conseguenza l’insoddisfazione dei cittadini creerà poi le condizioni per la prevalenza dell’élite avversaria nelle successive elezioni. In casi particolarmente gravi può intervenire una crisi di sistema: una normale alternanza tra partiti non è una soluzione possibile e il presidente della Repubblica promuove la formazione di governi «tecnici» o un accordo provvisorio tra partiti fortemente avversi, ma, a suo giudizio, … meno «antisistema» di quelli lasciati fuori dall’accordo.
Salvadori fa benissimo a immergere le vicende politiche di oggi — il governo Letta e le sue difficoltà, le crisi gemelle del Partito democratico e del Popolo della libertà, le violente polemiche alimentate dal Movimento 5 Stelle — nella storia lunga del nostro Paese: immersi nella quotidianità, nella lettura dei giornali, tendiamo a dimenticare quanto esse dipendano da uno State and nation building distorto e incompleto, o quantomeno più distorto e incompleto che negli altri grandi Paesi europei cui ci confrontiamo. Il «fare gli italiani» secondo il progetto liberale cavouriano si rivelò subito impresa di estrema difficoltà e, se una cosa sorprende, è il relativo successo che esso ebbe: le opposizioni — dei cattolici, dei democratici repubblicani, poi dei socialisti — erano, oltre che in conflitto tra loro, in radicale opposizione al progetto cavouriano e dunque si ponevano come forze antisistema, anzi, anti-Stato: l’accesso al governo doveva essere impedito loro a ogni costo, o mediante operazioni trasformistiche o mediante manovre autoritarie. Le cose andarono diversamente in altri Paesi e il confronto di Salvadori con la Germania bismarckiana e guglielmina — certamente non un modello anglosassone di democrazia liberale — è molto efficace, pur nella sua brevità. Anche qui cattolici e socialisti erano forze anti-Stato, ma lo Stato, sostenuto da un capitalismo e dunque da una crescita economica ben più forti, da una straordinaria organizzazione militare, da una società assai meno disomogenea territorialmente, da livelli di istruzione e da uno spirito civico più elevati e diffusi tra la popolazione, da un’amministrazione pubblica più onesta ed efficiente, fu sempre in grado di contenerne le minacce: quando si arriva alla prova suprema, la Prima guerra mondiale, la vittoria dello Stato sull’anti-Stato è nettissima e il voto sui crediti di guerra ne sarà la dimostrazione.
Nel nostro Paese, con il ritorno della democrazia e dei partiti, nel secondo dopoguerra, «disgrazia volle» che gran parte dei ceti popolari fossero rappresentati dal Pci, un partito antisistema per convinzioni ideologiche e per alleanze internazionali, e da un Partito socialista ad esso succube. Dunque da due partiti che «dovevano» essere esclusi dal governo. Quando, con lo sviluppo economico e la secolarizzazione della società, i partiti che sostenevano il sistema (e di conseguenza, more italico , avevano occupato lo Stato) videro diminuire i propri consensi, si pose un problema di estensione della base parlamentare: rapidamente escluse svolte autoritarie, il crescente disagio dei socialisti nei confronti dell’egemonia comunista fornì l’occasione per un’alleanza di governo tra di essi e i democristiani.
Il centrosinistra fu una svolta importante e oggi, cinquant’anni dopo, tendiamo a dimenticare le illusioni che suscitò e le apprensioni (e il «tintinnare di sciabole») che le accompagnarono: fu, in realtà, una crisi di sistema all’interno del regime democratico, che condusse a una lunga «Grosse Koalition» cementata dalla conventio ad excludendum , contornata ai margini dalle forze antisistema dei comunisti e dei postfascisti. Una coalizione inefficiente dal punto di vista della crescita economica e della modernizzazione istituzionale, sia a causa delle culture politiche prevalenti nei principali partiti che la componevano — di liberale c’era ben poco in entrambi — sia dei conflitti tra di essi: in Europa democristiani e socialisti governavano in alternanza e le coalizioni erano eccezionali.
Storico politico, Massimo Salvadori presta minore attenzione di quanta io dedicherei alle decisioni di politica economica e istituzionale che forze così eterogenee e in competizione tra loro misero in atto, decisioni dominate dalla ricerca di consensi elettorali a breve termine: il debito pubblico che ci grava addosso, il disastro dell’industria di Stato, lo sfacelo di larghi comparti della pubblica amministrazione e, in generale, la scarsa attenzione a riparare le tare del nostro incompleto State and nation building , sono in buona misura responsabilità della seconda parte della Prima Repubblica. E uno Stato meglio amministrato, meno vessatorio e meno corrotto non sarebbe crollato sotto i colpi di Mani pulite: la scomparsa dei due grandi partiti di governo è un fenomeno unico nell’Europa occidentale.
Una crisi di sistema più forte, ma pur sempre in un contesto democratico, si sviluppò nei primi anni Novanta e diede origine a quella che è stata chiamata, con espressione assai impropria, Seconda Repubblica. Anche in questa giuntura fondamentale «disgrazia volle» — ma una disgrazia storicamente spiegabile — che la sinistra, amputata del contributo socialista, fosse costituita da élite politiche in evoluzione troppo lenta e confusa verso concezioni socialdemocratiche e liberaldemocratiche moderne, gli ex-comunisti e gli ex-democristiani di sinistra; e che il vasto popolo conservatore venisse conquistato da due leader populisti, Bossi e Berlusconi. Il primo con evidenti inclinazioni antisistema, anzi, anti-Stato in senso proprio. Inclinazioni tenute a freno dal secondo, il capo carismatico della coalizione. Questi, però, abbandonò assai presto la meritoria ispirazione liberale, da cui era partito, per un messaggio populista e accattivante verso gli elettori cui si rivolgeva: l’importante era vincere le elezioni e bloccare l’attacco giudiziario contro di lui, non governare il Paese sulla base di un programma rigoroso e coerente, ma molto difficile.
È una storia recente e assai nota, che Giovanni Orsina racconta e interpreta bene nel suo Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio) e che Salvadori ripercorre rapidamente e con mano sicura, ricollegandola alle sue categorie interpretative. È la storia del bipolarismo rissoso, urlato e inconcludente che abbiamo vissuto in questi ultimi vent’anni, permesso, se non causato, da leggi elettorali che incentivavano coalizioni che si uniscono per vincere e poi si dividono sul governare. Nella Prima Repubblica, nei trent’anni successivi al centrosinistra, l’obiettivo era quello (in fondo comprensibile) di creare un’alleanza, incoerente sì, ma in grado di impedire l’accesso al governo di un partito antisistema. Non era più questo l’obiettivo della Seconda Repubblica: ormai tutti i principali partiti erano considerati «di sistema», idonei a governare, o così pareva sino all’emersione del Movimento 5 Stelle. L’obiettivo era solo quello di prevalere elettoralmente, ma prevalere in una guerra di religione tra «berlusconiani» e «comunisti». Gli effetti sulla crescita economica e sulla modernizzazione istituzionale di coalizioni fieramente avverse ma internamente incoerenti sono stati però egualmente negativi. E ancor più preoccupanti gli effetti sul rapporto tra cittadini ed élite politiche.
La rivolta settentrionale alla fine degli anni Ottanta, quella che, insieme a Mani pulite, portò al crollo della Prima Repubblica, aveva in sé un elemento di speranza, di rigenerazione, di fiducia verso élite politiche rinnovate. Ora, come tutti i sondaggi ci dicono, la speranza è morta. Resta solo la protesta fine a se stessa, non accompagnata da alcun programma minimamente realistico di conduzione della cosa pubblica. Si tratta del Movimento 5 Stelle, l’ultima forma che il partito antisistema ha assunto. Di qui la crisi di sistema della Seconda Repubblica, quella in cui siamo tuttora immersi.
L’aggravarsi della crisi economica, con l’incapacità del governo Berlusconi di farvi fronte, indusse il presidente della Repubblica a promuovere il governo guidato da Mario Monti, composto soprattutto da tecnici e appoggiato in Parlamento dai principali partiti. Era la fine del 2011: come la storia si è di seguito sviluppata è troppo noto per meritare una ripetizione. Giova però tenerlo presente per segnalare un ulteriore intervento del presidente della Repubblica, che seguì immediatamente quello che aveva condotto al governo tecnico e fu determinato dallo stallo che seguì le elezioni del febbraio 2013. Questa volta è l’attiva promozione di un governo di larghe intese tra due partiti in aspro conflitto tra loro, Pd e Pdl, e che aveva lo scopo di impedire l’accesso al governo del terzo grande partito emerso dalle elezioni, il Movimento 5 Stelle. Questo rappresentava un’incognita, un puro partito di protesta senza un programma di governo credibile, avversato da tutti i ceti dirigenti, economici, istituzionali, culturali, mediatici del Paese, una forma imprevedibile ma assai radicale di partito antisistema. Si riproponeva allora la conventio ad excludendum che aveva caratterizzato l’intera Prima Repubblica. Da tragedia a farsa, dall’esclusione dei comunisti a quella dei 5 Stelle? Torniamo al famoso incipit del 18 Brumaio di Karl Marx, sulla storia che si presenta sempre due volte, una come tragedia, l’altra come farsa?
Purtroppo si tratta di una farsa tragica. Da un lato essa manifesta in forma esasperata difficoltà che si presentano oggi in tutte le democrazie, anche nelle più solide: come al solito l’Italia, l’anello debole, le segnala per prima. Dall’altro essa manifesta le cause profonde, e difficilmente sradicabili, della crisi politica italiana, e dobbiamo essere grati a Massimo Salvadori per aver contribuito a ricordarcele.
Alla fine del suo libro Salvadori riassume le conclusioni raggiunte e aggiorna alle condizioni odierne quell’obiettivo del «fare gli italiani» che abbiamo solo parzialmente raggiunto nei 150 anni di storia nazionale: «Dar vita a un sistema politico in grado di riformare le istituzioni, renderle funzionanti, farne lo strumento per un inserimento efficace del Paese nell’Europa unita». Ma la politica non è solo l’obiettivo, specie quando esso appare così lontano da un suo raggiungimento. La politica è la diuturna scelta dei mezzi per avvicinarsi a esso: è oggi preferibile una legge elettorale proporzionale o maggioritaria? Delle riforme economiche e istituzionali necessarie, a quale dare priorità in un contesto di mezzi scarsi, conservatorismo delle istituzioni e rischi di impopolarità? Anche un Cavour, anche un politico che abbia ben saldo l’obiettivo finale e però sappia anche sfruttare genialmente le occasioni che le circostanze gli offrono, farebbe non poca fatica a cavarci dal disastro in cui ci siamo cacciati.