Maria Corbi, La Stampa 2/12/2013, 2 dicembre 2013
LETTI COME LOCULI E COLONIE DI TOPI NELL’INFERNO DEI LAVORATORI-SCHIAVI
Come dopo ogni disgrazia piovono le dichiarazioni di intenti: faremo vedremo, bloccheremo. «Come se oggi scoprissero l’acqua calda. Ma bastava venire qui con occhi aperti per capire che la situazione è da anni insostenibile».
Qui è il Macrolotto di Prato, la zona industriale fino a pochi anni fa vanto dell’imprenditoria tessile nazionale, oggi occupata dalle industrie cinesi e chi parla è uno dei tanti pratesi che non si stupiscono della tragedia quanto dello stupore di chi la commenta. Seicentomila metri quadri di capannoni, una città per lo più illegale, cresciuta nel silenzio di chi poteva fare qualcosa, iniziando dall’impedire che la dignità umana, insieme ai diritti, venissero calpestati in nome del profitto.
Seicentomila metri quadri di capannoni e quello dell’incendio è uno come tanti. Tante volte Finanza, Polizia e Carabinieri li hanno visitati trovando sempre le tracce più o meno evidenti dell’illegalità, dello sfruttamento, dell’evasione fiscale. Stanzoni con macchine per cucire, stiratrici, pelli, colle, sostanze tossiche che fanno compagnia ai bambini a cui tocca di vivere qui in clandestinità senza mai vedere la luce del sole. Fino a quando non avranno l’età, o solo l’altezza, per usare le macchine e entrare nel vortice produttivo che sforna abiti a prezzi stracciati.
Tanti gli imprenditori rovinati da questa concorrenza sleale che vince perché non rispetta le regole, a iniziare da quelle sulla sicurezza sul lavoro. Zhao deve avere una trentina di anni, forse meno, dice di stare in Italia da 8 anni, ma il suo italiano è elementare. Pochi i contatti con la popolazione locale. Vive anche lui in uno di questi capannoni e scuote la testa. Ma è difficile farlo parlare, ha paura. E come non capirlo visto che questo sistema illegale ha attirato la criminalità organizzata (un’inchiesta della procura antimafia ha ipotizzato il riciclaggio di quasi cinque miliardi di euro) e il racket degli operai-schiavi è n mano a potenti famiglie cinesi.
Eppure le magliette , i pantaloni, gli abiti che nascono in questa Disneyland dell’illegalità possono tutte fregiarsi dell’etichetta made in Italy. Zhao ha la faccia spenta, senza emozioni mentre gli si chiede della tragedia di oggi. Viene dalla provincia orientale dello Zhejiang come tanti qui al Macrolotto. Dorme anche lui in un capannone e ha la sua “stanza” nello zaino: un materassino di gomma e una coperta di pile. Il pericolo dei controlli è sempre alto e bisogna essere pronti a cambiare dormitorio. «L’importante è lavorare», dice. O almeno sembra. «E mandare i soldi a casa». L’immagine delle sette vittime rende le sue parole agghiaccianti come la sua disperazione. Mentre le parole delle autorità che accorrono sul luogo della tragedia sfumano nel nulla, appannate dal freddo e dalla loro debolezza.
Una passeggiata per via Pistoiese, a Prato città, la più grande Chinatown d’Europa, rende l’idea della ricchezza e del potere con gli occhi a mandorla. Auto di grossa cilindrata, ovunque negozi di money transfer che a luglio sono stati rivoltati da cima a fondo per un giro sospetto di soldi verso la Cina, di circa 10 miliardi di euro (molti dei quali frutto dell’evasione fiscale e della vendita di vestiti contraffatti o di provenienza non controllata). Sui muri scritte con ideogrammi. L’ordinanza anti sputo sembra essere rimasta lettera morta. Gli italiani che sono rimasti alzano le spalle, vinti, arrabbiati non per intolleranza verso i vicini di casa orientali ma per essere stati lasciati soli, sacrificati.
Chi è entrato nei capannoni, come i finanzieri, ha trovato situazioni al di là dell’immaginazione: loculi di cartone o al massimo di cartongesso, a volte impilati, con aree comuni dall’odore nauseabondo condivise con colonie di topi e scarafaggi. Lettini da neonato addossati a mura umide e sporche, C’è poi chi dorme sotto la macchina da lavoro, riparato da una stoffa che poi dovrà cucire. Scenari medievali in una delle città più operose d’Italia, dove fino a dieci anni fa c’erano le più belle fabbriche di tessuti e filati.
Oggi è l’invasione cinese del pronto moda, che popola le bancarelle dei mercati e gli scaffali dei negozi. «In tempi di crisi – ci dice una ambulante arrivata in serata a comprare merce – la gente vuole spendere meno e i cinesi hanno prezzi anche di due terzi inferiori a quelli dei prontisti nazionali». Sempre la solita storia.
«Ma il problema non è di chi viene a comprare, ma di chi permette che si produca senza regole a danno dei lavoratori e della concorrenza leale», dice Fabio, figlio di un imprenditore che per non morire di fame ha dovuto anche lui allentare qualche regola. «Niente nomi, per carità, perché a noi italiani ci massacra Equitalia, mentre i cinesi la passano liscia».
Una tragedia che addolora, indigna ma non stupisce. «Questa tragedia, posso essere un po’ cinico, non mi sorprende», dice l’assessore alla sicurezza del Comune di Prato Aldo Milone, tra i primi ad arrivare davanti alla fabbrica distrutta. «Più volte abbiamo detto quello che poteva succedere in questi capannoni alla presenza di dormitori, con impianti elettrici scadenti, non a norma e con il vizietto dei lavoratori cinesi di fumare in continuazione». Negli ultimi controlli fatti, infatti sono state trovate molte sigarette per terra, vicino a materiali acrilici altamente infiammabili.
Perché non è stato fatto niente? Milone rimanda la risposta al governo: «Ad Alfano lo scorso novembre abbiamo consegnato l’ennesimo dossier su Prato. Noi in quattro anni abbiamo controllato 1.200 aziende su 3.500».