Virman Cusenza; Osvaldo De Paolini, il Messaggero 1/12/2013, 1 dicembre 2013
VISCO: ANCORA RISCHI PER L’EURO
[Ignazio Visco]
Il primo messaggio del governatore Ignazio Visco arriva proprio dal luogo in cui ha deciso di riceverci: la sala della Madonnella di Palazzo Koch. La ragione non sta nel più comodo tavolone per gli appunti sul taccuino, ma nella storia di queste volte che hanno ospitato tutte le riunioni cruciali dei vertici di Bankitalia: quando sono state prese le decisioni più difficili e sofferte. Non sembra dunque un caso che qui e adesso il governatore squaderni gli intrecci della crisi economica più complessa dal Dopoguerra e, sotto lo sguardo vigile della maiolica di scuola della Robbia, accenni pure al bagliore che può condurci fuori dal tunnel.
Governatore Visco, a che punto della crisi siamo? È da luglio che in Italia si parla di ripresa imminente, e tuttavia gli italiani faticano a intravedere una vera inversione di tendenza.
«Tutti gli indicatori ci dicono che si è toccato il fondo e che, sia pure timidamente, la ripresa ha cominciato a farsi strada. Il ritmo di caduta del Pil si è pressoché annullato. Il clima di fiducia di consumatori e imprese è migliorato e nell’ultimo bimestre la produzione industriale ha segnato un lieve rialzo. Nel 2014 i segni dovrebbero farsi più evidenti».
Chi porta il merito maggiore di questa inversione?
«Negli ultimi tre anni la risposta alla crisi in Europa si è concentrata su due direttrici: da una parte politiche di bilancio più prudenti e riforme strutturali per sostenere la competitività dei singoli paesi; dall’altra, un processo ampio di riforma della governance economica e un maggiore impegno politico per il rafforzamento dell’Unione. Come ho già avuto modo di sottolineare, nel breve periodo il rigore di bilancio ha avuto effetti restrittivi, ma abbiamo corso il rischio di perdere l’accesso ai mercati, e con 400 miliardi di titoli di stato da rinnovare ogni anno… È stato evitato il peggio, ora vediamo un punto di svolta».
Lei stesso però riconosce che la ripresa è fragile, di debole intensità. Quanti nuovi posti di lavoro potrà generare?
«In condizioni normali, l’uscita dalla recessione porta con sé nuovo lavoro. Ma non siamo in condizioni normali. La crisi finanziaria ha colpito in un momento di profondi cambiamenti dell’economia globale, con la fine della guerra fredda, la grande affermazione dei paesi emergenti, l’allungamento dell’aspettativa di vita e un mutamento tecnologico straordinario. Prima di generare nuovi posti di lavoro in grado di compensare quelli che in queste nuove condizioni vengono meno, bisogna che la struttura produttiva si adegui a questo cambiamento, che può ben definirsi epocale».
Un cambiamento che l’Italia non è stata in grado di cogliere.
«Sì, l’Italia ha mancato molte delle opportunità offerte dal cambiamento maturato nel corso degli anni ’90. La Germania, allora grande malato d’Europa, ha invece avuto la capacità di sfruttare, soprattutto nel settore manifatturiero, la spinta tecnologica anche grazie alle riforme del mercato del lavoro. I vantaggi che l’economia tedesca ha conseguito non sono però dipesi solo dalle riforme attuate dal governo Schroeder, ma anche dall’autonoma capacità del sistema produttivo di adeguarsi per tempo».
E l’euro? Quanto ha contribuito al successo tedesco la moneta unica, oggi tanto vituperata proprio in Germania?
«Il successo tedesco non può essere ricondotto a un solo fattore. Inoltre, la competitività dei prodotti tedeschi non dipende solo da fattori di prezzo. È però vero che tra l’avvio della moneta unica e il 2007 la crescita economica tedesca ha tratto vantaggio. Il surplus commerciale tedesco ha generato un flusso finanziario verso i paesi deficitari che ne ha sostenuto la domanda, e quindi le importazioni, pur in presenza di difficoltà competitive per la crescita dei costi e gli insufficienti incrementi di produttività. Con la crisi, anche a causa della caduta della domanda negli altri paesi dell’area questo vantaggio si va attenuando».
Nel 2006 l’economia italiana era ben posizionata. Quando ha cominciato a staccarsi dall’Europa più dinamica?
«In realtà i problemi, profondi, c’erano già prima. Lo spartiacque negli anni più recenti è però il 2009. In quell’anno l’economia mondiale ripartì, la Germania seppe trarne pieno beneficio mentre l’Italia ebbe una ripresa debole, cumulando ulteriore ritardo. Poi la crisi dei debiti sovrani… Oggi scontiamo la colpa di non aver dato risposta a due problemi: il mancato recupero dei ritardi a livello nazionale e il mancato completamento del disegno europeo».
Ancora non ha risposto alla domanda: quanti nuovi posti di lavoro può generare una ripresa dalle gambe così fragili?
«In assenza di una decisa spinta di riforma, meno che in passato. Per effetto del nuovo paradigma tecnologico molti lavori, per primi quelli in cui prevalgono operazioni standardizzate, sono spiazzati da processi automatizzati. Molte occupazioni stanno sparendo mentre il mercato si va orientando verso due tipi di domanda: quella di lavoratori in grado di risolvere problemi, con competenze avanzate e dimestichezza con le lingue, e quella di lavoro manuale o dedicato alla cura della persona».
Quali sono i fattori di rischio in questo scenario?
«Gli stessi che ci hanno portato fin qui: l’incompletezza della costruzione europea ma soprattutto la debolezza persistente del nostro sistema produttivo, pubblico e privato».
Partiamo dall’Europa. Di recente più voci hanno suggerito di avviare un’azione energica sull’Unione, giudicata troppo prona agli interessi tedeschi. Si è anche immaginato un asse tra Francia, Italia e Spagna per rendere più efficace l’intervento. Come giudica questa idea?
«L’Italia è sempre stata un grande fautore del metodo comunitario. La contrapposizione frontale tra paesi membri o tra gruppi di paesi membri può ritardare il progresso, necessario anche per una rapida uscita dalla crisi, nel rafforzamento dell’Unione che non può che richiedere una risposta unitaria. Ricordo a questo proposito l’accordo franco-tedesco a Deauville nell’ottobre 2010 che portò poi alle decisioni del Consiglio dell’Unione del luglio 2011, quando si decise di coinvolgere il settore privato nella ristrutturazione del debito della Grecia, con un conseguente default tecnico. La natura sistemica della crisi del debito sovrano origina da lì, con il coinvolgimento di Italia e Spagna giudicati dai mercati anelli deboli della catena, per gli elevati livelli di debito, pubblico per l’Italia e privato per la Spagna».
Come superare le rigidità più evidenti verso l’Europa latina?
«Occorre più coesione: la mancanza di unione politica ha esasperato la domanda di consolidamento delle finanze pubbliche nazionali da parte del mercato; gli effetti restrittivi di queste misure e il loro impatto sul benessere dei cittadini sono stati accresciuti dall’assenza di un bilancio pubblico comune dell’area».
Il sentimento antitedesco in Italia è però in forte crescita. E Berlino non fa nulla per frenare questa onda lunga. Anzi, alcuni ministri del governo Merkel, e soprattutto la Bundesbank, sembra stiano facendo di tutto per alimentarlo.
«Il punto è che c’è sfiducia nella capacità degli Stati di mantenere il progetto di Unione. Credo sia questo il motivo di fondo che può alimentare il sentimento antitedesco, peraltro analogo a quello che nutrono molti tedeschi nei nostri confronti. Senz’altro loro sbagliano se pensano di essere i soli a finanziare i paesi più deboli, che sia cioè la Germania a pagare per tutti, quando il loro contributo ai fondi europei di sostegno finanziario è in proporzione come il nostro. Ma anche noi abbiamo colpe».
Come se ne esce?
«Occorre investire, tutti, sul futuro, cogliere le opportunità di crescita nella consapevolezza che bisogna saper produrre beni e servizi, spesso nuovi essi stessi, in modo nuovo. Nello stesso tempo occorre fare più Europa. La Bce, che pure ha dato un contributo importante alla stabilità finanziaria, non può sostituirsi ai governi nel varo delle riforme. Tocca alla politica integrare un’azione che da sola avrà sempre meno efficacia. E i mercati sono molto sensibili sul punto».
C’è ancora il rischio che la costruzione dell’euro finisca in frantumi?
«Nell’autunno del 2011 la possibilità di una rottura dell’unione monetaria fu concreta. Oggi è un pericolo al quale in buona parte sono state date risposte, ma il rischio non è svanito. Tutto sarebbe più facile con più Unione: per dirla con le parole di Tommaso Padoa-Schioppa, un euro senza Stato genera problemi di ordine politico, economico, sociale e culturale. Problemi che potrebbero però essere risolti con una maggiore integrazione. Purtroppo il processo resta incompleto e le voci di dissenso sono tanto più frequenti quanto più gli effetti della crisi si fanno sentire».
A ciò non è certamente estraneo il comportamento dei tedeschi. Eppure anche loro avrebbero non poco da perdere da uno sgretolamento dell’euro.
«Credo si rendano perfettamente conto che il modello di crescita guidata dalle esportazioni non vale per sempre. Ci vuole simmetria nell’aggiustamento. Ma non possiamo aspettarci che siano loro a risolvere i nostri problemi. In Italia è mancata una percezione netta dei rischi che abbiamo corso e che si stanno ancora correndo, sicché non si è arrivati a dire: cambiamo il modello. I tedeschi lo hanno compreso e si sono mossi in quella direzione, raccogliendone i frutti. Anche da loro vi è consapevolezza, però, che bisogna andare avanti, rendendo più efficienti i servizi, accrescendo gli investimenti, anche in capitale umano».
Quanto può incidere sui comportamenti la realizzazione dell’Unione bancaria?
«Molto. Ma anch’essa sarà incompleta se non vi sarà una maggiore unione di bilancio, se non si progredirà nella costruzione europea. In questo processo la politica monetaria della Bce ha consentito e sta consentendo di guadagnare tempo».
C’erano alternative all’intervento della Bce?
«Non al punto in cui si era giunti. L’attuazione di riforme complesse richiede tempo e il duro giudizio dei mercati incombeva. La Bce doveva intervenire per fronteggiare la frammentazione dei mercati finanziari dell’area e preservare la trasmissione uniforme degli impulsi di politica monetaria. Si rischiava un collasso finanziario che avrebbe avuto effetti drammatici sull’economia reale. La Bce ha offerto larghi ammontari di liquidità alle banche e, successivamente, ha annunciato un programma di acquisto di titoli di Stato senza limiti ma condizionato a precisi impegni dei governi. Quest’ultimo era il solo modo per ridurre gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani che ormai erano alimentati non più solo dai fondamentali nazionali ma anche dai dubbi sulla tenuta dell’euro».
Torniamo all’Italia di oggi. Le banche sono accusate di non contribuire a sostenere la ripresa. E’ davvero così?
«La profondità della crisi attraversata dal nostro paese pesa anche sul sistema bancario. Non sorprende che le banche registrino difficoltà e fatichino a fornire pieno sostegno all’economia. Gli intermediari hanno risentito della crisi dei debiti sovrani e del conseguente peggioramento delle condizioni di provvista sui mercati. Avvertono le ripercussioni negative della crisi sulla qualità dei prestiti, soprattutto quelli alle imprese. I finanziamenti della Bce hanno consentito di compensare il calo della raccolta internazionale e di predisporre riserve a fronte dei rimborsi futuri di obbligazioni. Ma solo con la ripresa e il conseguente miglioramento delle prospettive delle imprese le banche potranno rivedere le politiche di allocazione dei fondi».
Non crede che l’eccesso di rigore praticato dalla Banca d’Italia possa alla lunga rivelarsi controproducente? Molte banche lamentano un approccio esasperato da parte della Vigilanza, soprattutto nella codifica dei rapporti con le imprese.
«Il rigore non ha aggettivi. E contrariamente a ciò che si pensa, proprio il nostro modello di vigilanza ha contribuito a far sì che il sistema bancario italiano reggesse all’urto più forte. Pensiamo all’esperienza giapponese degli anni Novanta, quando le insolvenze di molte imprese non più produttive tardarono a essere riconosciute, rendendole, in una definizione ormai quasi di uso comune, dei veri e propri zombie finanziari, incapaci di onorare i propri debiti verso le banche. Questo ritardo e la mancanza di riserve patrimoniali adeguate da parte delle banche provocarono una grave crisi finanziaria e avviarono un decennio di stagnazione, con pesanti conseguenze sia economiche sia sociali».
Dobbiamo quindi ritenere che la politica di rigore della Vigilanza proseguirà?
«Sicuramente. La Vigilanza segue con attenzione l’evoluzione del credito e della sua qualità. Lungi dal danneggiare le banche, la sua azione consente di rafforzarle, rassicurando i mercati sulla solidità dei loro bilanci. Al netto delle rettifiche già contabilizzate, l’ammontare delle sofferenze nelle banche italiane è di circa 75 miliardi ed è ampiamente coperto dalla presenza di garanzie reali e personali. Gli altri crediti deteriorati – incagli, prestiti ristrutturati e scaduti – che presentano tassi di perdita attesi significativamente più bassi di quelli delle sofferenze, ammontano a 115 miliardi. Anche a seguito delle verifiche da noi condotte tra la fine del 2012 e l’inizio di quest’anno, il tasso di copertura del complesso delle partite deteriorate si è stabilizzato. La situazione è certamente difficile, ma anche grazie a questi interventi le banche italiane non arrivano, nel complesso, impreparate all’appuntamento con le verifiche in calendario nel 2014».
Dunque, le nostre banche sono sane. Tuttavia più di un investitore si domanda come sia possibile che, nonostante due crisi economiche e la caduta verticale della produzione industriale, siano ancora in piedi.
«A proteggere le banche italiane hanno contribuito innanzitutto modelli operativi rimasti ancorati alla tradizionale attività di intermediazione al dettaglio. Anche per l’attenta azione della Vigilanza, sono stati evitati i massicci investimenti in titoli tossici osservati in altri sistemi, spesso con il ricorso a veicoli fuori bilancio. E poi ci sono state una costante azione di rafforzamento del patrimonio e, come ho già ricordato, una particolare attenzione nel far fronte al deterioramento della qualità del credito».
Nessun problema, allora? Sul fronte delle banche possiamo dormire sonni tranquilli?
«Non ho detto questo. Anche se nell’ultimo biennio i profitti lordi delle banche italiane sono stati positivi, intorno ai 30 miliardi annui, e così pure nel primo semestre di quest’anno, le perdite su crediti continuano ad assorbirne la gran parte e gli utili netti sono molto più bassi che negli anni precedenti. Se dovesse permanere a lungo, questa condizione di bassa profittabilità finirebbe per pesare sulla situazione patrimoniale e sulla valutazione che il mercato dà della loro capacità di far fronte a possibili rischi di natura macroeconomica».
In un certo senso questa crisi ha radicalizzato le differenze tra le diverse aree del Paese. E c’è chi parla di morte del Mezzogiorno. La sua opinione?
«Il Mezzogiorno non è morto. La sua situazione non è molto diversa rispetto a vent’anni fa. Il problema è soprattutto ambientale, risiede nelle difficoltà con cui si riesce a tutelare la sicurezza e gli stessi contratti di impresa, nell’affermazione della legalità, nella capacità di accumulare capitale sociale. La sfiducia diffusa nella capacità delle istituzioni di tutelare l’interesse dei cittadini rende complicata ogni azione volta alla valorizzazione del territorio; nello stesso tempo sono evidenti i fallimenti sul piano del costo e della qualità dei servizi pubblici e del rendimento medio dell’investimento in istruzione».
Come giudica la legge di stabilità attualmente in discussione?
«La Banca d’Italia ha commentato in un’audizione parlamentare il disegno di legge presentato dal governo. Sono tuttora in via di definizione ampie modifiche di quel testo che però dovrebbero o migliorare i saldi o al massimo lasciarli invariati. Dobbiamo ricordare sempre che per convincere gli investitori, per ottenere una significativa e duratura riduzione dei tassi di interesse, e quindi del costo dei finanziamenti per i cittadini e per le imprese, è necessario non solo il puntuale rispetto delle regole di bilancio ma soprattutto un chiaro disegno di fondo, sostenuto con determinazione e coerenza, per il miglioramento delle condizioni strutturali dell’economia e della finanza pubblica».
Ma questa manovra può aiutare la ripresa? C’è chi dubita.
«Nei limiti consentiti dalla necessità di mantenere l’equilibrio dei conti pubblici, essa sembra contenere alcune misure volte a sostenere la ripresa. Sono stati avviati uno spostamento di risorse verso gli investimenti, la riduzione del cuneo, un nuovo piano di revisione della spesa. Sono azioni da mantenere e intensificare, alle quali può corrispondere la riduzione e la riqualificazione dell’imposizione fiscale, il cui elevato livello certamente frena l’espansione della domanda».
Quali tagli alla spesa corrente sarebbero necessari per aiutare la crescita?
«Per ridurre l’eccessivo carico fiscale non vi è alternativa al proseguimento del suo contenimento. La decisione di rafforzare il campo d’azione e i poteri del commissario per la revisione della spesa è un passo importante. Si tratta di superare i tagli orizzontali uguali per tutti, rimettendo in discussione la macchina dell’amministrazione pubblica sulla base di una valutazione approfondita delle priorità e dei fabbisogni. Mi pare cruciale la decisione di coinvolgere le amministrazioni interessate; questo potrà facilitare non solo la definizione di razionali piani di risparmio, ma anche e soprattutto delle procedure necessarie alla loro coerente applicazione nel tempo. Sarà anche utile valutare caso per caso la possibilità di attribuire al mercato servizi che possono essere svolti da privati, sotto il controllo pubblico, con minori costi per la collettività».
Le dismissioni sono una soluzione valida?
«Sono una parte della soluzione. Ma non ci sono soluzioni miracolistiche, che pure sulla carta parrebbero risolutive. E poi bisogna fare i conti con il mercato e i suoi umori. Già sarebbe importante condurre in porto le cessioni che il governo ha programmato».
Governatore, alla luce di quanto lei ha detto, riformuliamo la domanda: come se ne esce?
«La percezione chiara dei rischi di questa situazione deve produrre una spinta decisa ad affrontare il cambiamento, nelle condizioni e nei modi di produrre, nella capacità di generare reddito, nell’utilizzo di nuove tecnologie, nell’investimento in nuove competenze. A volte si ha l’impressione che questo non sia ancora accaduto, in Italia ma anche in altri paesi dell’Unione. Il completamento del disegno europeo è complesso ma non può essere rimandato indefinitamente. Senza passi concreti verso l’unione di bilancio, la riforma della governance economica e l’unione bancaria rischiano di essere insufficienti».
Quale dev’essere il contributo dell’Italia a questo processo?
«È necessario soprattutto recuperare il ritardo accumulato sul fronte della produttività. In generale, occorre eliminare molti vincoli, dalla decisa riduzione degli ostacoli burocratici e della corruzione alle difficoltà di risposta della giustizia civile. Abbiamo soprattutto bisogno, al di là dell’impegno indubbio di molti docenti, di una scuola che funzioni. Le indagini Ocse certificano un ritardo di alfabetizzazione funzionale del nostro paese, ossia una carenza di competenze di lettura e comprensione, logiche e analitiche commisurate alle moderne esigenze di vita e di lavoro. Occorre tornare a investire in conoscenza e cultura, sviluppare la capacità di lavorare con gli altri».
Dunque, siamo ancora fermi nella terra di nessuno?
«C’è l’inizio di un recupero, ma per tornare a una crescita equilibrata della nostra economia serve un disegno organico, non una sequenza di interventi. È quindi necessaria una visione credibile del futuro, bisogna poter dire che sì, se oggi occorrono sacrifici, questo servirà per stare meglio, per avere tutti un lavoro domani. La riduzione dell’incertezza è essenziale perché si riprenda a investire, perché alla condivisone responsabile degli interventi necessari corrisponda una risposta positiva della società civile».