Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 1/12/2013, 1 dicembre 2013
IL DRAMMA DELLE GIOVANI CURDE IN SIRIA «NOI, PREDE DEI MILIZIANI DI AL QAEDA»
I miliziani delle brigate islamiche in Siria hanno un sistema tutto loro per scegliere le donne curde. In genere avviene ai posti di blocco. Salgono sui bus civili con i mitra puntati, si fanno consegnare la lista dei passeggeri dal conduttore e cercano i nomi non arabi. Individuate le più giovani e carine le obbligano a scendere, le fanno genuflettere e poggiando il palmo della mano sulla loro testa le dichiarano «halal», che nella tradizione indica la carne macellata secondo la legge coranica, così vengono «islamizzate», purificate, pronte per congiungersi carnalmente con i cavalieri della guerra santa. Violenza di uno solo, o di gruppo: le ragazze sono considerate «spose temporanee». Possono essere trattenute per poche ore, oppure settimane. Alcune tornano a casa, altre alla fine vengono uccise. Altre ancora sono assassinate dai fratelli o cugini per cancellare «l’onta». Invece i militanti della «Shabiha», la milizia paramilitare agli ordini di Bashar Assad, pare siano più selettivi. Si concentrano unicamente contro i parenti noti degli attivisti della rivolta, meglio se donne. I loro criteri sono politici, non religiosi.
Le testimonianze non sono difficili da raccogliere tra le giovani donne ammassate nei campi di tende e baracche costruiti dall’Unicef nel Kurdistan iracheno. Le storie più drammatiche vengono narrate dagli oltre 60.000 curdi arrivati qui da metà agosto per accrescere un popolo di 200.000 rifugiati. «Mia cugina era studentessa universitaria di letteratura inglese. Quasi ogni giorno prendeva il bus dalla nostra cittadina curda di Derek per raggiungere la facoltà a Latakia. Ma i miliziani l’hanno rapita mentre viaggiava quattro mesi fa. Da allora non sappiamo più nulla di lei», racconta Juai Iskander, vent’anni, arrivata assieme ad altri 6.000 profughi al campo di Darashakran, una quarantina di chilometri a nord di Erbil. «La sua sparizione ha indotto mio padre a partire con me e le mie sorelle. Era diventato prioritario salvare la nostra integrità», aggiunge. La storia di Azar Marriwalika, 18 anni, è ancora più drammatica. Studentessa all’università di Homs, anche lei viaggiava periodicamente dalla sua abitazione a Qamishli, oggi centro politico del nuovo movimento di autonomia curdo. «Per me il terrore è cominciato a inizio estate, quando i guerriglieri di Jabat al Nusrah (la formazione islamica siriana vicina ai movimenti qaedisti, ndr ) hanno rapito sei delle mie migliori amiche. Viaggiavano sullo stesso bus che prendo anch’io. Chi era a bordo ha poi raccontato che l’azione è stata molto rapida. Le hanno indicate con le canne dei fucili e hanno detto: queste sono per noi. Pochi secondi e l’autobus è ripartito, i passeggeri temevano che avrebbero sparato ai finestrini se ci fossero state proteste», dice. Pochi giorni dopo sparisce un’altra amica di Qamishli, Nasreen Achmad, 17 anni, studentessa al primo anno di letteratura francese a Homs. Infine è toccato alla sua compagna dai tempi della prima elementare: Berivan, vent’anni, vicina di casa. «I rapitori dopo qualche tempo hanno fatto recapitare il video della violenza carnale a casa dei genitori. Era in un semplice telefonino abbandonato di notte di fronte alla porta. Si vede Berivan completamente nuda e due uomini con i pantaloni abbassati che la prendono a turno. Lei piange, loro ridono. Un terzo filma, come se fosse un porno».
Quante sono state violentate e quante tra loro sono sparite? Un recente rapporto dell’organizzazione umanitaria non governativa Euro Mediterranean Human Rights Network (Emhrn)ha indicato un numero: sarebbero 6.000 le donne che hanno subito violenze sessuali dall’inizio delle rivolte nel marzo 2011, senza specificare quante curde. Ma il dato è impossibile da verificare. Una cosa è certa. In Siria, come avviene da tempo immemorabile in tutte le zone di guerra e fortemente destabilizzate, il discorso delle violenze sessuali impera. Difficile distinguere tra le ossessioni ancestrali dettate dai tabù collettivi e la realtà. In Libia nel 2011 tutti ne parlavano, ma i numeri reali furono probabilmente molto più bassi di quelli paventati. Anche tra i palestinesi circolano di continuo narrazioni terrificanti sulle violenze alle donne durante le perquisizioni notturne dei militari israeliani. Pure, le conferme si contano sul palmo di una mano.
Sta crescendo invece il problema in Egitto: con l’incancrenirsi della violenza e del caos sociale, aumenta in modo sproporzionatamente alto il numero degli stupri. In Siria siamo ancora lontani dalla violenza sessuale pianificata su larga scala, come avvenne contro le donne tedesche al tempo dell’arrivo dell’Armata Rossa nel 1945. Eppure, nei confronti delle curde l’elemento ideologico-religioso non è da sottovalutare. «Per gli estremisti islamici siriani e soprattutto per i volontari di Al Qaeda arrivati dall’estero noi curdi siamo dei sub-umani. Non siamo musulmani, dunque secondo la loro folle ideologia possiamo essere uccisi o stuprati senza problema. Per loro non è peccato. Siamo Kafiri, miscredenti», sostiene Khundaf Ibrahim, 25 anni, ex professoressa di inglese, fuggita dal villaggio siriano di Derek e arrivata il 17 agosto al campo rifugiati di Kawrgosk una trentina di chilometri da Erbil, abitato al momento da 15.000 persone. A detta di Ipek Ezidxelo, 30 anni, attivista del Partito di Unione Democratica (Pyd), il più importante movimento armato nelle regioni curde siriane, gli estremisti qaedisti, specie gli afghani, ceceni e libici, farebbero a gara per catturare vive le combattenti curde.
Racconta durante il nostro incontro all’ufficio Pyd a Sulaymaniyya: «Quei criminali uccidono subito i nostri compagni uomini. Ma alle donne sparano alle gambe. Le vogliono vive, per violentarle meglio, e ferite, così non possono lottare. Abbiamo trovato pillole di viagra nelle tasche dei loro combattenti. E una lettera firmata direttamente dal loro imam, in cui si promette che comunque andranno direttamente in paradiso».
Lorenzo Cremonesi