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 2013  dicembre 01 Domenica calendario

NICK CAVE


Il regista che dice di essere stato salvato dal rock lo aveva issato nel 1987 tra i suoi angeli nel Cielo sopra Berlino. In mezzo a custodi alati in ansiosa ricerca di tracce d’umanità, nel film di Wim Wenders Nick Cave appariva e diventava icona. Ma aveva cominciato a rodarsi tre anni prima, con From Here to Eternity insieme al gruppo che ne diventerà ombra, The Bad Seeds. A quell’esordio folgorante sono seguiti molti album di successo, di cui l’ultimo, il quindicesimo, viene ora srotolato da Nick Cave & The Bad Seeds nel tour mondiale che ha appena toccato anche Roma, Milano, Bologna, dopo un concerto-evento a Parigi. È qui che lo abbiamo incontrato, nei camerini regali del mitico Zénith.
Il nuovo cd è musicalmente all’opposto delle esperienze passate: dopo anni di grida, furore ed eccitazione elettrica, è fatto di pace e di silenzio. L’album, Push The Sky Away, perdipiù sa nuovamente di cielo. Solo che lo “spazzar via” del titolo è ambivalente: incita a liberarsi d’ogni cappa, anche quella, ultima, dell’orizzonte o piuttosto invita a rinunciare a ogni coperta protettiva, anche quella luminosa dell’universo? In altre parole, Mister Cave, continuiamo a restare sospesi nella sua abituale polarità? Il crooner australiano, cinquantasei anni, sfoggia il blu metallico e vampiresco dei suoi occhi: «Io direi che è una pausa, e che riflette un momento preciso della nostra vita. Questo lavoro deve molto anche al luogo in cui è avvenuta la registrazione, la Fabrique, in Provenza, uno studio che ospita la più grossa raccolta di vinili classici in Europa. Mi sono sentito subito a casa, si è smosso qualcosa di profondo, di antico, dentro di me. La mia voce è venuta fuori così, d’istinto, il timbro subito addolcito. Noi tutti, di colpo, totalmente liberi, calmi, sereni. Non avevamo mai lasciato tanto spazio al silenzio». Sentirsi a casa, dice, anche nel senso di tornare all’infanzia? «Sì. Del resto a che cosa può servire l’arte se non a ritrovare lo stupore del bambino, riscoprire la bellezza, reinventare la luce? Ho trascorso l’esistenza a cercare di rivivere episodi che mi ricordassero l’attimo in cui ho debuttato nella vita. Quante cose sono successe allora. La mia idea di bellezza è totalmente legata alla prima infanzia: scrivere è per me un modo di ritrovare quelle sensazioni, quella stessa luce».
Non è, la propria, l’unica infanzia con cui Cave oggi abbia a che fare. Ci sono i suoi figli, quattro, di cui due gemelli di dodici anni che vivono con lui e la moglie a Brighton. «I miei bambini vivono in un mondo che non riesco a comprendere. Il che non significa che io li ignori. Al contrario, con assoluta regolarità li introduco nel mio universo. E loro ne vanno pazzi. Ho anche varato una tradizione domestica che ho battezzato “la serata del film sconsigliato”. Guardiamo insieme film per spettatori maturi come Scarface, o Il silenzio degli innocenti. Ne escono fieri, consapevoli che il papà li ha ritenuti capaci di condividere con lui un’esperienza adulta. Io avevo dodici anni quando mio padre mi fece vedere Lolita di Kubrick, leggendomi alcuni passi del romanzo di Nabokov. Non ci avevo capito molto, ma mi è rimasto il piacevole ricordo d’essere stato ammesso a un mondo proibito. Immagino che anche i miei bambini ne ricavino la stessa sensazione: sanno bene che li lascio guardare qualcosa che non dovrebbero. Il beneficio che ne trarranno è ben più ampio di quel che potrei ottenere se mi sforzassi di mettermi al loro livello, cercando di condividere i loro interessi infantili». Cave ha un lampo negli occhi e ride: «E adesso, signore e signori, ascoltati questi meravigliosi propositi, ecco arrivare i servizi sociali pronti ad arrestarmi!». Nell’attesa che arrivino indaghiamo sull’interessante famiglia Cave... «Non avevo mai pensato che ci potesse essere un legame culturale tra me e mio padre. Finora mi sono state chiare le differenze: c’è un gap generazionale incolmabile nei nostri comportamenti. Con i miei bambini io sono molto fisico, tattile, come del resto la maggior parte dei genitori d’oggi. Una volta, tra padre e figli c’era un rapporto modellato su quello tra insegnante e allievi. La principale preoccupazione era di trasmettere un sapere — la cosiddetta “esperienza” — e una sana educazione civile ». E sua madre? È fiera di avere un figlio cantante? «Assolutamente. È sempre stata dalla mia parte. Potevo aver combinato il peggio, quel che mai si potrebbe perdonare, e lei era sempre lì, pronta a sostenermi. Era la prima a venirmi a cercare anche ogni volta che mi portavano al posto di polizia... Mia madre, bibliotecaria dalle aspirazioni di violinista, come mio padre, professore con velleità di scrittore, è di un’altra epoca: una vera stoica. Davanti a qualsiasi difficoltà, alla peggiore ingiustizia, non si ferma: butta giù e via. È da lei che ho ereditato un carattere determinato, una volontà di ferro, che niente può frenare. Mio padre è morto troppo presto, in un incidente stradale, quando avevo diciannove anni. Mia madre lo evoca di tanto in tanto. Una volta, a Natale, ha borbottato che era “difficile viverci insieme”: un po’ come con me, che avevo preso molto da lui. Mi ero chiesto allora che cosa intendesse dire, ma non l’ho mai saputo. Solo adesso, forse, comincio, a capire».
Anche Brighton, sulla costa meridionale inglese, dove si è trasferito da oltre dieci anni, all’apparenza sembra uno sghembo ritorno alla quiete dell’infanzia, alla riscoperta di un po’ di pace. Dopo il ribollire d’una giovinezza inquieta, gli esordi punk, caotici e brutali a Melbourne con la sua prima band, The Birthday Party, lo sbarco nella Londra anni Ottanta, la lunga parentesi creativa a Berlino e l’amicizia con Wenders, gli abissi dell’alcol e della droga, da cui è da tempo risalito. Insomma, finalmente di nuovo a casa? «Quasi. Casa, per me, sarà sempre l’Australia, anche se non ci vivo più da oltre trent’anni. Londra è una città superba, tentacolare, ma non mi calza più a perfezione. Meglio il piccolo mondo di Brighton, il suo semi-deserto culturale, che mi fa da chioccia, da divano su cui stendermi a riposare e pensare. Le canzoni dell’ultimo album sono nate tutte lì. Una città che mi andava a pennello è stata Berlino. Prima della caduta del Muro la divisione permetteva una strana indipendenza: l’Ovest era un’isola fuori del mondo, a misura di artisti, e sono tanti quelli famosi che ci hanno vissuto in quegli anni, prima di me David Bowie. A proposito: commovente il suo disco dopo dieci anni di silenzio, Where We Are Now?, per me un dolcissimo flashback sentimentale. Eravamo un’autentica comunità, tutti in fraterna e armoniosa evoluzione. Una città davvero unica da questo punto di vista. Oggi, riandando a quegli anni, mi sento un privilegiato per aver provato la sensazione di vivere solo per l’arte e attraverso l’arte ». A Berlino sono sbocciate anche la grande amicizia con Wenders e le musiche per altri film, Fino alla fine del mondo, Così lontano così vicino, L’anima di un uomo: «Con il cinema ho stabilito un bell’andirivieni, tra colonne sonore, collaborazioni alla sceneggiatura e mie interpretazioni: per esempio l’australiano Ghosts of the Civil Dead di John Hillcoat, oppure Johnny Suede di Tom DiCillo, con Brad Pitt. Il cinema mi attira, anche in aree a me lontane, tipo Harry Potter o, l’anno prossimo, il docudrama 20.000 Days on Earth, di Iain Forsyth e Jane Pollard ». E poi c’è la scrittura, Mister Cave, non solo i testi delle canzoni, ma poesie, e romanzi. Una calamita potente: «Non so, credo di essere più lettore che scrittore. E a volte non sono nemmeno troppo sicuro d’essere un musicista. Diciamo che ogni mia attività extramusicale mi serve prima di tutto per non diluire la forza dei Bad Seeds, fare in modo che il meglio sia per loro, perché rappresentano la mia opera più riuscita, l’unica cui io tenga davvero. Tutto il resto non m’importa. Esprimermi fuori della musica mi preserva dallo scoglio più rischioso e pericoloso: realizzare con The Bad Seeds un’opera rock».