Francesco Bonami, La Stampa 1/12/2013, 1 dicembre 2013
PIF: “COSÌ HO MESSO IN RIDICOLO LA MAFIA”
Pierfrancesco Diliberto, al secolo Pif, fenomeno televisivo con Il Testimone e ora regista di La mafia uccide solo d’estate vincitore del premio del pubblico al Festival di Torino.
Primo film. Primo premio. Forse il più rilevante se non il più prestigioso. Te lo aspettavi?
«No, anzi. In tempi non sospetti avevo detto che il Tff mi metteva ansia. A Torino non c’è la rete di salvataggio del red carpet o della mondanità con cui ti puoi consolare se le cose vanno male. Il pubblico è cattivissimo, non gliene frega niente di te. Sono così sorpreso che mi abbia premiato, da dedicare la vittoria a un giocatore della Grecia che vinse gli europei nel 2004. Era così convinto di non arrivare in finale che per quel giorno prenotò il ristorante per il suo matrimonio. Io non sono arrivato a tanto ma …… »
Un film «leggero» sulla mafia. Da siciliano ti senti più qualificato per poterci scherzare?
«In un certo senso sì. Avevo già provato col Testimone e nessuno si era offeso. Essendo palermitano mi sono auto-autorizzato. Anche perchè conosco i limiti dove fermarmi, anche se non ho mai vissuto in prima persona le tragedie» .
Il cinema come passo inevitabile dopo il successo o era già una tua idea?
«La voglia di fare cinema l’ho sempre avuta, mio padre è regista. Non pensavo che però sarebbe accaduto con la classica telefonata del produttore (Mario Gianani) che aveva visto Il testimone e, spinto da uno dei suoi registi, Saverio Costanzo, mi chiamò. Comunque quando giravo le puntate del Testimone sulla mafia pensavo al film»
In tv te ne vai in giro con una video camera a mano. Nel film invece nessuna sperimentazione, metodo classico...
«Il testimone è nato nella mia stanza. Il film inizia e finisce un po’ come le puntate del Testimone - “Lo vedete questo… lo vedete quello…” - ma è girato in modo convenzionale, non ho nessuna intenzione di rivoluzionare il cinema».
Da piccolo si parlava di mafia a casa?
«Era una cosa che non faceva parte della nostra vita. Anche se alle elementari ero il responsabile della cronaca nera del giornale di classe, quindi ritagliavo articoli di morti ammazzati. Se qualcuno ci chiedeva della mafia rimanevamo stupiti perché per noi era una cosa distante. Ci siamo svegliati nel 1992 con le stragi e la guerra che Totò Riina aveva dichiarato allo Stato. Che poi è stato il suo più grande errore strategico».
Tuo padre ti ha aiutato?
«Lo ha rivisto la terza volta. Se l’ho fatto è esclusivamente grazie a lui. In fase di montaggio gliel’ho fatto vedere perché c’era un momento in cui rallentava. Senza che gli dicessi nulla ha capito subito il problema e lo abbiamo corretto».
I tuoi rivali in sala, Zalone e...?
«Gli americani non li considero neanche. Certo Checco Zalone. Devo però dire che pur essendo sicuro di questo film sono anche molto vulnerabile. Faccio le cose per farle vedere, non come gli artisti di arte contemporanea. Quindi al pubblico ci penso eccome».
Un film a cui devi qualcosa.
«I Cento passi di Marco Tullio Giordana. Peppino Impastato era uno che in radio prendeva in giro la mafia ed è stato ammazzato per questo. Senza di lui fare il film sarebbe stato più difficile».
Tu hai paura che la mafia si arrabbi ?
«La mafia non ha più la forza di uccidere o minacciare perchè viene presa in giro. Se mi minacciano mi fanno un piacere, così lo sfrutto per il marketing. La mafia oggi non ha più l’arroganza di una volta. Faccio parte della generazione che non è rassegnata. Oggi lo Stato con tutte le sue contraddizioni c’è. Ma negli Anni 70 e 80 anche io avrei detto “Non ho visto nulla” se qualcuno mi avesse interrogato su un crimine mafioso».
Paradossalmente la strategia di Riina ti è servita.
«Sì ma il prezzo è stato altissimo. Oltre ai crimini. non gli perdono di aver fatto diventare il mio bellissimo dialetto il linguaggio della mafia».
Gli incassi contano per un film?
«Tocchi un tasto delicato. Io non ci facevo caso, ora mi sveglio pensando a quanto ho incassato. Il cinema è un’operazione imprenditoriale, è giusto che chi ha messo i soldi almeno si riprenda le spese. Sento la responsabilità».
Piacerà all’estero?
«Non ho fatto il furbo. Avrei potuto fare più cartoline. Che sono quello che attira il pubblico americano».
Paura di cadere nel folklore, nello stereotipo?
«E’ il film meno folcloristico del mondo. Non si parla di cannoli e non ci sono coppole. C’è un solo dolce, la Iris con la ricotta al forno, la conoscono solo a Palermo ma a me fa impazzire».
Un film di denuncia o di rinuncia?
«Denuncia. Faccio parte di quel 10% che per girare un film non ha pagato il pizzo grazie all’associazione messa in piedi da ragazzi coraggiosi che si chiama “Addio al Pizzo” e a cui aderiscono 800 negozianti e imprese. Dieci anni fa sarebbe stato impossibile. Contro la mafia c’è tanto da fare. Ma oggi un ragazzino vive meglio di come vivevamo noi, quindi si è fatto tanto».
La tua fidanzata non si è offesa che non hai prenotato nemmeno una cena scaramantica come il calciatore greco?
«Mi conosce bene. Se voglio essere romantico regalo qualcosa con le spine, e non parlo di rose ma di elettronica».