Franco Giubilei, La Stampa 1/12/2013, 1 dicembre 2013
ADDIO ALL’ULTIMO RE DELLE FIGURINE PANINI
Le «fifi», nel lessico familiare della famiglia Panini, erano le figurine. La Fifimatic, con quel nome da giocattolo, era la macchina per imbustarle ideata da Umberto Panini che permise all’azienda modenese di fare il salto: da realtà artigiana a leader delle immaginette adesive da appiccicare agli album. L’altra sera l’ultimo esponente della dinastia italiana delle figurine, Umberto appunto, è morto a 83 anni. Insieme con i fratelli Franco, Giuseppe e Benito è stato il cuore di un’avventura nata dopo la guerra in un’edicola del centro di Modena, nel segno dell’immagine stilizzata della rovesciata di Carletto Parola.
Racconta Manuela Panini, una dei quattro figli di Umberto (che a sua volta aveva quattro sorelle oltre ai tre fratelli, ndr), che il padre era partito per l’America nel 1957, mentre i fratelli cominciavano a vendere figurine: «Mio padre aveva frequentato l’istituto d’arte e aveva lavorato alla Maserati: la sua specializzazione era il saldatore, era un fabbro bravissimo, e in Venezuela, a Maracaibo, ha trovato lavoro per le compagnie petrolifere». Un talento che i fratelli rimasti in Italia conoscevano bene (in vita sua Umberto ha anche messo a punto un motore a tre pistoni, battezzato «Tri-Ro», ndr) e che, quando capirono il potenziale del business delle «fifi», pensarono bene di utilizzare: «Giuseppe nel ’64 gli scrisse una lettera, dicendogli che doveva tornare perché serviva il suo ingegno per costruire una macchina per imbustare le figurine. “L’America è qua”, così gli disse, e mio padre di lì a poco tornò». Nel frattempo i Panini avevano acquistato l’area dello stabilimento in via Emilio Po, dove l’azienda si trova tuttora: nel ’65 la mitica Fifimatic funzionava già a pieno regime, segnando l’inizio dell’ascesa del marchio. «E’ così che è cominciato il boom delle figurine - ricorda la figlia, evidenziando la dimensione familiare della ditta -. Il rapporto fra i quattro fratelli era armonico, ognuno aveva un proprio ruolo: Umberto era il genio meccanico, l’hardware aziendale, mentre Franco, Giuseppe e Benito si occupavano di produzione, amministrazione e commercializzazione. Anche noi figli siamo stati coinvolti fin da bambini, perché venivamo usati come test per valutare la bontà di un tema per le figurine. Mia nonna poi staccava i francobolli dalle lettere spedite dai bambini per la sua raccolta».
Collezionisti nell’anima e tali rimasero fino all’ultimo. Umberto si occupava della manutenzione le macchine venivano riparate nell’officina di via Po e rimesse in pista. A volte individuava le rotative per la stampa in aziende fallite, allora usciva con gli operai per riportarle smontate dentro la Panini e rimontarle, sempre nell’ottica del massimo rendimento con la minima spesa. A fine Anni 80 la saga dei Panini si chiude con la vendita del gioiello di famiglia alla Maxwell, ma Umberto aveva già pronto un nuovo gioco: «Nella tenuta di campagna di Marzaglia ha cominciato a produrre parmigiano biologico, una cosa che all’epoca nessuno faceva - spiega la figlia -. Nel frattempo continuava a comprare e restaurare moto e macchine d’epoca, perché tutti i fratelli Panini avevano il tarlo del collezionismo. Quando De Tomaso decise di mettere all’asta il museo di auto storiche della Maserati, mio padre riacquistò le macchine riportandole a Modena e dando vita al museo che si trova vicino all’azienda agricola». Nell’autobiografia Umberto Panini ha scritto: «Un giorno un signore voleva vendermi un biglietto dell’Enalotto. Gli ho detto: “Che cosa vuoi che me ne faccia? Più di quello che ho avuto…”».