Alessandro Barbero, La Stampa 1/12/2013, 1 dicembre 2013
STRAZIAMI MA DI PARADISO SAZIAMI
Il 30 aprile 1389 il francescano dissidente fra Michele da Calci, condannato a morte come eretico, fu condotto per le vie di Firenze fino al rogo che lo attendeva sul greto dell’Arno. Lungo tutto il percorso una folla emotiva e accalorata dialogava con lui, ora implorandolo di pentirsi e salvarsi la vita («Deh! Non voler morire!»), ora rimproverandolo per la sua ostinazione: «Sciocco che tu se’, credi nel Papa!». L’anonimo simpatizzante che ci ha tramandato questo eccezionale reportage annota le puntuali repliche del condannato, che fino all’ultimo continuò a riaffermare le idee per cui andava a morire: «Voi ve n’avete fatto Iddio di questo vostro Papa...».
Non molti anni prima, sempre a Firenze, un famoso assassino era stato condotto al patibolo, legato nudo sul carro, col boia che a ogni sosta gli straziava le carni con tenaglie roventi. Anche allora una folla eccitata si assiepava lungo le strade, ma dagli spettatori partivano urla d’odio e di derisione, e incitamenti al boia affinché lo facesse gridare ancora più forte. In questi due episodi così simili eppure così diversi è racchiusa la duplicità della pena di morte tra la fine del Medioevo e l’età dei Lumi: uccidere il criminale significa fare scempio del suo corpo e infliggergli una spaventosa sofferenza, ma significa anche cercare fino all’ultimo di salvare la sua anima.
Nei due casi fiorentini citati, queste due facce della pena di morte sembrano escludersi a vicenda, ma proprio a quell’epoca teologi e giuristi stavano arrivando alla conclusione che invece si trattava della stessa cosa: il condannato poteva salvarsi l’anima proprio in quanto veniva messo a morte, pagando coll’orrore del supplizio il debito contratto con Dio. L’idea si radicò così profondamente nella psicologia collettiva che talvolta chi voleva suicidarsi assassinava un bambino innocente, allo scopo di farsi condannare a morte: il suicida, infatti, è dannato senza speranza, ma chi sale al patibolo dopo aver confessato i suoi peccati vola in cielo.
Al centro del nuovo, grande libro di Adriano Prosperi, Delitto e perdono. La pena di morte nell’orizzonte mentale dell’Europa cristiana. XIV-XVIII secolo, appena uscito da Einaudi (pp. 577, € 35), c’è lo sforzo compiuto dall’Europa cattolica per assicurarsi che i condannati a morte non fossero mai lasciati soli, nell’ultima terribile notte e poi durante il cammino verso il luogo dell’esecuzione. I morituri dovevano sempre essere circondati da persone che li trattavano in modo fraterno, senza mostrare orrore dei loro delitti; li confortavano a farsi forza, ad accettare la pena come espiazione, e a guadagnarsi il paradiso. A questo compito, detto appunto il «conforto» nell’italiano dell’epoca, si dedicarono le innumerevoli confraternite dei Battuti, della Misericordia o della Buona Morte, di cui Prosperi ha setacciato gli archivi, ricavandone una casistica emozionante e memorabile.
Le esecuzioni capitali, allora frequentissime - almeno una al mese in qualunque grande città italiana, e spesso molte di più - vennero così accompagnate da un rituale più disciplinato e composto. Beninteso, nei casi più gravi il corpo del reo era ancor sempre straziato in modo atroce, tagliandogli le mani, spaccandogli le ossa sulla ruota e lasciandolo agonizzare per ore: il barbiere Gian Giacomo Mora, uno degli untori del processo manzoniano, resisté per sei ore. Nelle aree dove dominava l’Inquisizione spagnola, come la Sicilia, ancora in pieno secolo dei Lumi si continuò a bruciar vivi gli eretici sulla marina di Palermo. Ma tutti riconoscevano che il vero scopo della pena non era più, o non solo, la punizione del colpevole: era piuttosto la sua salvezza. Il libero dialogo del condannato con la folla venne interrotto, ma non solo per timore di quello che avrebbe potuto dire: come nel caso di Giordano Bruno, cui fu inchiodata la lingua perché non parlasse mentre saliva sul rogo. Più spesso il dialogo pubblico era evitato perché troppo più importante era il dialogo privato del morituro con i confortatori che gli stavano accanto fino all’ultimo, abbracciandolo e implorandolo di non farsi del male e di salvarsi l’anima.
A ragione dunque Prosperi osserva che il paradigma di Foucault, che vedeva nei supplizi un «teatro del terrore» con cui il potere soggiogava il popolo, non è più sufficiente. Era teatro, certo, ma non solo del terrore, anche della speranza. Salvare l’anima del reo, e ricondurlo docilmente al conformismo religioso, era un compito importantissimo, come dimostra il livello sociale di coloro che se ne incaricavano. I membri delle confraternite erano gentiluomini, dottori, prelati, principi, che protetti dall’anonimato del cappuccio passavano notti intere dialogando a tu per tu con criminali e miserabili: a ribadire che nella società cristiana le disuguaglianze erano immense, ma valevano solo in questo mondo. E se il teatro del terrore smembrava i corpi dei criminali, tagliando mani e teste, era poi compito dei confratelli raccogliere pezzo per pezzo e garantire al corpo sepoltura cristiana, evitando che il sangue del cristiano salvato finisse sparso chissà dove: «che non lo lecchino i cani». Che poi, in molti casi, si facessero avanti i medici e gli studenti, a reclamare cadaveri per il teatro anatomico, e che la Chiesa, sinceramente convinta che la scienza va difesa e aiutata, si rassegnasse a prestar loro qualcuno di quei corpi, sottraendolo alle pie cure delle confraternite, è solo un esempio in più delle contraddizioni profonde che agitavano l’Europa del «lungo Medioevo», e da cui è nato il mondo moderno.