Rita Sala, Il Messaggero 30/11/2013, 30 novembre 2013
MUTI – Dopo il debutto e la prima replica di Ernani - un trionfo all’Opera che ha sconfitto, nella sua rara bellezza, le minacce di sciopero e parte delle nebbie sul futuro - Riccardo Muti si concede il languore del pensiero
MUTI – Dopo il debutto e la prima replica di Ernani - un trionfo all’Opera che ha sconfitto, nella sua rara bellezza, le minacce di sciopero e parte delle nebbie sul futuro - Riccardo Muti si concede il languore del pensiero. Vaga, nella Roma complice di fine novembre, dai lirici greci alla passione per la “sua” Italia, dalla coscienza del successo alla filosofia del distacco, che ti permette di gustarne il senso intimo al riparo da ogni rumore. Dispiace, quasi, strappare il maestro a questa dimensione insolitamente contemplativa, per di più a poche ore dal podio in un Costanzi stracolmo di spettatori. Sul Financial Times, una recensione a firma Andrew Clark, uscita ieri, propaga nel mondo intero (l’autorevole quotidiano economico è letto da Londra a Cape Town, da New York a Sidney) il senso e la qualità dell’Ernani romano: «...il far musica di Muti ha acquisito un calore, una generosità, un’umanità che raramente si erano rivelati alla Scala». Ancora: «Questo Verdi testimonia l’armonia unica che intercorre tra il direttore e la sua orchestra». Maestro, hanno un significato particolare, questa volta, i tanti elogi? «Hanno il senso di un riconoscimento qui e ora. Testimoniano cioè quello che penso e che è comunque sotto gli occhi di tutti: orchestra e coro dell’Opera di Roma hanno raggiunto livelli di eccellenza che portano il Teatro tra i migliori d’Europa. L’ho ripetuto al ministro Bray, che è venuto alla “prima” di Ernani e ne ha preso atto di persona. L’Opera non è seconda, in Italia, a nessun’altra Fondazione lirica». Subito dopo la “prima”, alle molte insistenze dei media sulla serata e sulla situazione del Teatro lei ha risposto con poche frasi. Una risulta un po’ sibillina: «Mi sa che questo attacco massiccio all’Opera non sia solo una questione di cultura...». «Né più né meno di questo. Il resto è intuito. Non esiste solo la cultura, esistono altri ambiti che non mi appartengono: il confronto tra istituzioni, l’amministrazione, la politica, le strategie, pesi e contrappesi... Non mi riguardano e voglio restarne fuori. I miei territori sono il golfo mistico e il palcoscenico, quelli conosco, con quelli interagisco. Ma, appunto, contano anche altre realtà». Il ministro Bray e il sindaco Marino si alternano nel dichiarare che l’obiettivo è ora consentirle di lavorare in tutta serenità. Quali sono le condizioni per mandare avanti al meglio il suo lavoro all’Opera? «Non suoni banale, o peggio: la prima condizione sono i denari. Per produrre allestimenti di alto livello i soldi servono. Arte e cultura costano, ne sapeva qualcosa la grande committenza italiana del Rinascimento. Seconda condizione, la tranquillità spirituale e materiale degli artisti e degli altri lavoratori, che si trovano ad agire non in un supermercato, ma in un luogo d’arte. Terza, la sicurezza che viene dal sapere di avere alle spalle una città fiera del proprio teatro lirico. Roma ha nell’Opera una bandiera da sventolare in tutto il mondo. La dimostrazione l’abbiamo appena data a Salisburgo, chiudendo il festival 2013 con un Nabucco che è finito sui giornali, sul web, nelle tv, un successo registrato e commentato in innumerevoli lingue». Lei non è mai scivolato nel gioco dei nomi, che i media chiamano il valzer delle poltrone. Ma come vede il futuro assetto dell’Opera, una volta scongiurato il commissariamento? «Il mio territorio - tengo a ripeterlo - è fatto di orchestra e palcoscenico. È la musica. Il ministro e il sindaco di Roma hanno dato certe rassicurazioni. Ai primi di dicembre scadono gli organi gestionali del Teatro e non so cosa accadrà. Non è mio compito entrare in questo tipo di questioni. Semplicemente, dopo che saranno state fatte le scelte, deciderò se rimanere o andarmene». Parliamo della stagione in corso. Strepitosa la campagna abbonamenti. Tutto esaurito alle sette recite di “Ernani”. In primavera il suo primo Puccini romano, la “Manon Lescaut”, e in maggio la tournée in Giappone con due Verdi, “Nabucco” e “Simon Boccanegra”. «Sì. E questa volta la tournée in Giappone dell’Opera di Roma dovrà essere importante, impeccabile. Ho speso la mia parola con i giapponesi, assicurando che si farà tutto in regola. È una questione di serietà e di buon nome dell’Italia». Già, l’Italia. Quando lei, la sera della “prima” di “Ernani”, ha concesso il bis interrogando la platea: «Ma si ridesterà questo Leon di Castiglia?», qualcuno ha pensato si riferisse a Berlusconi... «Parlavo ovviamente del mio Paese, piegato sotto molti problemi, non ultimo quello della cultura, del patrimonio artistico e archeologico in pericolo. Parlavo di un’Italia che stenta a ritrovare la fierezza del proprio grande passato e la voglia di riscatto. Io sono orgoglioso di essere italiano, lo dico senza reticenze. Lavoro nel mondo ma risiedo in Italia, in Italia pago le tasse, per l’Italia riesco a gioire e soffrire. Sono un uomo all’antica che ha frequentato lo stesso Liceo in cui studiò Gaetano Salvemini». Lei che si è autodefinito apulo-campano, come riesce ad essere così “romano”? «Nel Liceo di Salvemini ho avuto una formazione classica, ho imparato ad amare il greco e il latino. E ho studiato la romanità, un modello, per me, almeno fino a Federico II. Il mio cognome viene dall’appellativo di una gens romana. Ho persino trovato il naso di famiglia sul volto di marmo di un Tiberius Mutius il cui sarcofago sta in una chiesa di Roma». Forse il suo feeling con la Roma di oggi è cominciato nel 2006, quando, dirigendo il concerto che inaugurò proprio all’Opera la prima Festa internazionale del cinema, lei salutò la città citando a memoria i primi versi del Carmen saeculare di Orazio. «Alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius. Al di là d’ogni retorica, Roma è questo. Bisogna amarla come facevano i classici, con rispetto e consapevolezza di quanta storia abbia alle spalle. Forse è utopico, ma sarebbe bello che con lo stesso tipo di amore i romani si legassero al loro Teatro dell’Opera».