Massimo Fini, Il Fatto Quotidiano 30/11/2013, 30 novembre 2013
JFK, IL FALSO MITO DI UN PRESIDENTE DI PACE
NEL CINQUANTESIMO anniversario della morte di Kennedy, nell’orgia di retorica delle celebrazioni cominciano ad affiorare timidamente, almeno in Europa, dei dubbi sulla leggenda del “presidente più amato dagli americani”. Dei dubbi che, per quel che mi riguarda, avevo già espresso nel 1988 (il 25°) in un articolo sul Giorno intitolato “Delitto di immagine”. Proprio con Jfk inizia un’era sinistra della politica, non solo americana, in cui l’immagine fa premio sulla sostanza, la forma sul contenuto, la parola sulla realtà. Con Kennedy si entra a vele spiegate in quella politica-spettacolo, oggi diventata norma, dove il successo di un leader dipende dalla capacità, sua e del suo staff di pubblicitari, di bene impressionare, con la complicità di media compiacenti, l’opinione pubblica, più che da ragioni di sostanza. Dwight Eisenhower, il predecessore di Jfk, fu eletto perché era il generale che aveva guidato gli Stati Uniti alla vittoria sui nazisti.
Quando Kennedy divenne presidente era solo il rampollo più ruspante di una potente famiglia, piuttosto losca, che si era arricchita durante il proibizionismo. Ma era “bello e di gentile aspetto”, giovane, sorridente, aveva un bel ciuffo biondo, la moglie fica e si faceva scrivere dai suoi ghostwriter, Goodwin e Sorensen, frasi del tipo: “Non chiedetevi ciò che il Paese può fare per voi, ma ciò che voi potete fare per il Paese”. E fu subito mito. Ciò consenti al “bel ciuffo” di tentare un vergognoso e disastroso colpo di Stato a Cuba, di dare inizio alla guerra del Vietnam, di accelerare la corsa agli armamenti nucleari che in quel periodo superarono di tre volte quelli dell’Urss, ma di passare ugualmente alla storia come il presidente degli Stati Uniti che più aveva amato la pace e la coesistenza.
La presidenza di Kennedy fu caratterizzata da un nepotismo, un clientelismo e una corruzione scandalosi, ma ciò non gli impedì, sempre in virtù del “bel ciuffo”, d’essere considerato il campione duro e puro della democrazia. Inoltre, attraverso il mafioso Sam Giancana, aveva contatti con Cosa Nostra. Nixon invece era brutto, aveva una faccia antipatica, e a nulla gli valse non essere mafioso, aver chiuso la guerra del Vietnam, essersi riaccostato alla Cina con una felice e anticipatrice intuizione politica che ebbe benefici effetti sulla distensione internazionale, averla fatta finita con la truffa del gold exchange standard . Rimase sempre, e per sempre, in Europa, “N i xo n boia”.
NEL PROCESSO di beatificazione Kennedy è stato spesso accomunato a Kruscev, entrambi considerati, più o meno per gli stessi motivi di immagine, come gli interpreti di una mitica età dell’oro, della pace e della speranza. Di Kruscev piaceva ai media l’aria bonacciona, contadina e furba, il suo parlar per antichi proverbi russi, l’umoralità che lo portava a sfilarsi una scarpa all’Onu e a sbatterla sul tavolo, cosa che lo rendeva umano, molto umano. Poco importa che al momento del dunque, quando gli ungheresi insorsero per togliersi di dosso il tallone di ferro dell’Urss, il contadino tanto umano si sia comportato esattamente come si sarebbe comportato Stalin, mandando i carriarmati a spianare nel sangue la rivolta bollata, in perfetto stile Ghepeu, come “complotto di elementi nazifascisti”. Troppo spesso e troppo disinvoltamente si è rimosso che è proprio durante questa mitica “età dell’oro” del binomio Kennedy-Kruscev che il mondo, con la crisi dei missili di Cuba, andò più vicino di quanto lo sia mai stato alla terza guerra mondiale. Kruscev, sconfitto il comunismo, è ormai dimenticato. Kennedy rimane un mito. Retorico. Perché la retorica, come scriveva Savinio, “è sproporzione fra immagine e realtà”.