Armando Torno, Corriere della Sera 30/11/2013, 30 novembre 2013
LA BUONA PREDICA NON STUPISCE MA DEVE CAMBIARE CHI LA ASCOLTA
Le omelie nella liturgia cattolica sono una spiegazione, un commento ai passi delle Sacre Scritture. Il predicatore le rivolge ai fedeli durante la celebrazione della Messa. Si potrebbe considerarle un punto di contatto, forse un abbraccio ideale, tra chi esercita il sacrificio o celebra l’ufficio e il popolo attraverso le parole della Rivelazione. Hanno una storia più che millenaria e dopo il VII secolo, allorché la maggioranza della popolazione in Occidente non comprese più il latino, si cominciarono a tenere in volgare. All’inizio del IX secolo la Chiesa carolingia raccomandava ai vescovi di tradurre in lingua comprensibile a tutti le ammonizioni e le indicazioni necessarie per professare la fede. All’epoca di Dante — che sferzò nel XX canto del Paradiso i predicatori «gonfi di vento» — erano già un genere letterario, come provano i circa duecento testi di Giordano da Pisa o dei due domenicani Jacopo Passavanti e Domenico Cavalca. Tommaso d’Aquino lascia alcune regole nel suo Commento a Matteo: «I predicatori devono illuminare a riguardo di ciò che si deve credere, dirigere nell’operare, indicare quanto è da evitarsi e, ora minacciando, ora esortando, predicare agli uomini».
Già, praedicare : il verbo si regge su dicare , che è un intensivo di dicere ; ovvero significa annunciare più che proferire. Codesti valori semantici, non semplici dettagli di un repertorio retorico, costituirono materia per diverse considerazioni al Concilio di Trento, durante i lavori della celebre assise cinquecentesca che al genere dedicò non poche riflessioni. Ce n’era una (Sessione V, canone 2), fra le tante, che invitava i predicatori al cospetto dei fedeli ad «annunciare loro i vizi che devono evitare e le virtù che debbono praticare».
E oggi come sono le omelie o prediche che dir si voglia? Riescono ancora a rendere concreto l’annuncio del Vangelo? Prima di rispondere a tali domande conviene aprire l’ultimo libro di Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, per lunghi anni attivo alla Comunità di Sant’Egidio a Roma: La Parola di Dio ogni giorno. 2014 (Francesco Mondadori Editore, pp. 608, e 20). Senza soffermarsi con rimpianti sulla «crisi della predica», tema caro a taluni nostalgici dei quaresimali veementi, l’autore offre un esempio pratico di come sia possibile ritrovare un’armonia della comunicazione delle Scritture. L’omelia oggi non deve essere una lezione di teologia, né un discorso politico, meno che mai un elenco di cose lecite o sconsigliabili: nella concezione di don Vincenzo — continuiamo a chiamarlo in tal modo anche se è arcivescovo — sarà pure questo, ma soprattutto essa deve cambiare gli animi, non semplicemente stupirli. Sembra paradossale, ma ogni omelia meditata custodisce un frammento di Rivelazione; ed esso sa parlare. Karl Barth, se ben ricordiamo, la considerava simile a un articolo di giornale che nasce dalla Scrittura e informa l’anima di quanto succede nell’ambito delle cronache che la riguardano.
Paglia colloca questo libro nella scia dell’anno della fede, aperto da papa Benedetto e concluso dall’attuale Pontefice con un messaggio denso di riflessioni sulla nuova evangelizzazione. Francesco nella recentissima enciclica Evangelii Gaudium pone proprio nel cuore dell’evangelizzazione l’importanza dell’omelia. Già il Vaticano II la definiva «parte dell’azione liturgica» e l’autore ricorda il suo desiderio di «aiutare le parole del Vangelo a giungere sino alla soglia del nostro cuore perché possiamo poi personalmente dialogare con il Signore». Parlando di «nuova evangelizzazione» non va dimenticato un singolare percorso che essa evoca continuamente: la Parola deve «scendere nei cuori» per far «germogliare una storia». Don Vincenzo ricorda chi gli ha suggerito l’idea, ovvero l’attuale Pontefice, che crede nelle rinnovate possibilità dell’omelia. «Papa Francesco — scrive — ne dà per primo l’esempio. Fin dall’inizio del suo pontificato, ha voluto commentare il Vangelo che si proclama nella celebrazione eucaristica quotidiana».
Il volume, inoltre, non si creda sia semplicemente un insieme di prediche o di commenti per un utilizzo pratico: queste pagine sono un percorso per recare soccorso alla fede e meglio comprendere quello scandalo della ragione che è il Dio disposto a rivelarsi, a parlare. Don Vincenzo segue fedelmente la liturgia e sa che in essa è celata una antica forza, utile per cogliere il messaggio della Scrittura. Del resto, non va dimenticato che proprio il termine contiene nel suo etimo la motivazione: leitourgia in greco — come attestano i lessici di Platone e Aristotele — è un servizio reso alla cosa pubblica, o in pubblico, prima di essere la scienza che tratta delle cerimonie dei riti della Chiesa. Sottolinea Paglia: «L’intero anno è strutturato in maniera tale da farci percorrere il mistero di Gesù legato alla storia umana e alla nostra vicenda personale». Ed anche il ritmo della settimana, elemento basilare dell’anno liturgico, orienta i suoi giorni verso la domenica, che rappresenta la Pasqua.
Già, liturgia. Chi la conosce sa che attraverso di essa ogni dettaglio assume un significato; le ore, i minuti, i secondi che scorrono impassibili possono trasformarsi in lacerti d’infinito, cambiando in noi la percezione del tempo che va. Del resto, la nostra vita ha senso soltanto se non dissipa le occasioni, se non naufraga tra i flussi delle cose. O meglio, se scopre un senso. Forse una Parola. Per rinnovarsi. Continuamente.