Carlo Panella, Libero 30/11/2013, 30 novembre 2013
PECHINO MINACCIA: «PRONTI ALLA GUERRA CON TOKYO»
«La Cina deve prepararsi a un potenziale conflitto col Giappone»: questa grave minaccia è stata riportata ieri dal Global Times, l’edizione inglese del Quotidiano del popolo, organo ufficiale del Partito Comunista cinese. Quindi non una fonte ufficiosa, ma la più alta e autorevole espressione delle massime autorità politiche di Pechino. La posta e la ragione di questo «potenziale conflitto» sono le isole Senkaku (o Diaoyu, secondo la denominazione cinese), piccole isole in larga parte rocciose, ma ricoperte da bellissima vegetazione, praticamente disabitate – e molto pescose - nel mar cinese meridionale su cui la Cina ha esteso alcuni giorni fa il suo «spazio aereo di rispetto» con una esplicita rivendicazione di sovranità. Rivendicazione che concerne, oltre all’arcipelago, un grande tratto di mare in cui passa una delle principali rotte marittime del globo, attraversata ogni anno da navi che trasportano merci per 4.000 miliardi di dollari (e che costituiscono il 23% dell’import export complessivo degli Stati Uniti). Alle minacce del Global Times sono seguiti i movimenti militari: dopo che venerdì due B52 Usa avevano passato indisturbati lo spazio aereo delle Senkaku, ieri jet cinesi si sono levati in volo per «accompagnare » altri due B52 che hanno percorso la stessa rotta mentre una consistente flotta cinese composta dalla portaerei Liaoning, dai cacciatorpedinieri Shenyang e Shijiazhang e dalle fregate Yantai e Weigang ha attraccato nella base militare di Sanya, prospiciente alle isole Senkaku e allo spazio aereo contestato. Questo, dopo che dal dopoguerra il Giappone ha esercitato la sua sovranità sull’arcipelago Senkaku (fa parte della prefettura di Okinawa), affittandolo per decenni in concessione alla famiglia giapponese Kurihara, che lo utilizzava per location di lussuosi matrimoni e feste. Ma negli ultimi anni si è scoperto che nelle acque dell’arcipelago si trovano grandi giacimenti di idrocarburi e quindi le blande rivendicazioni territoriali della Cina nei loro confronti si sono trasformate pochi giorni fa in una sostanziale rivendicazione di sovranità piena. Il tutto, all’interno di una situazione di grande tensione commerciale tra Pechino e Tokyo che l’anno scorso spinto le autorità cinesi , che controllano in maniera dirigista anche il mercato libero, a ridurre di un sonoro 40% le importazioni di veicoli Toyota.
Sarebbe un grave errore – secondo molti analisti - considerare questa disputa per un lontano arcipelago, come una scaramuccia marginale, una «scena di teatro» per esibizioni muscolari a uso interno, in una Cina la cui opinione pubblica è sensibilissima alle sirene del nazionalismo nei confronti del Giappone, memore della feroce occupazione giapponese del Manchukuo negli anni trenta e poi degli orrendi crimini compiuti dai militari giapponesi in Cina durante la seconda guerra mondiale (nella sola Nanchino furono massacrati 300.000 cinesi).
La decisione di un Barack Obama improvvisamente scopertosi interventista a fianco del Giappone, di violare con i B52 militari lo «spazio aereo di rispetto» cinese, subito dopo che era stato dichiarato, a cui è seguito l’invio della flotta cinese nell’area, accompagnato dalle minacce del Global Times, sono passi di una escalation che può fuggire di mano. Va detto che il premier giapponese Shinzo Abe, leader del partito liberal democratico, fortemente nazionalista, ha più volte ribadito la disponibilità a una soluzione diplomatica di questo contenzioso territoriale. Ma non è detto che questa disponibilità venga raccolta dal presidente cinese Xi Jinping che, forte della eccessiva arrendevolezza sinora dimostrata anche nei confronti della Cina da Obama, potrebbe essere tentato di passare dalle minacce ai fatti. In sostanza, la crisi delle isole Senkaku-Diaoyu ha in sé molte premesse per diventare una nuova «crisi di Cuba » (che nel 1962 contrappose Kennedy a Krusciov e portò il mondo sull’orlo di una guerra mondiale). Con la non piccola differenza che Obama ha dimostrato ampiamente di non avere la stoffa di J.F. Kennedy.